Addio a Umberto Veronesi
una vita contro il cancro

Addio a Umberto Veronesi una vita contro il cancro
di Mario Pappagallo
Mercoledì 9 Novembre 2016, 10:13 - Ultimo agg. 10 Novembre, 13:54
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Il 28 novembre avrebbe compiuto 91 anni. È morto Umberto Veronesi, l'uomo che ha sfidato il cancro. L'oncologo è deceduto nella sua casa milanese circondato dai familiari, la moglie Susy, i sette figli, i nipoti. Da quest'estate le sue condizioni di salute si erano progressivamente aggravate, fino a non poter più andare nel suo studio all'Istituto europeo di oncologia in via Ripamonti a Milano. È stato il colpo di grazia per un uomo che non poteva stare lontano dai suoi pazienti, dalla ricerca, dai suoi medici. Le fragilità dell'età e della malattia si sono aggravate fino a una morte, forse conoscendo le sue idee a un certo punto desiderata. Poco importa di cosa sia morto, importa che ha spento la luce quando non sentiva più la forza di fare, di combattere. Lui che nella vita, con ferma determinazione ma senza alcuna violenza, ha sempre scelto le vie più difficili ma che lui riteneva vincenti. E che la morte l'aveva anche sfidata, a 18 anni, in guerra, quando saltò su una mina: il ricordo era una scheggia di tre centimetri nell'addome a cui si era affezionato. «Fa sempre suonare i controlli in aeroporto, mostro la lastrina con la mia scheggia e passo», raccontava.

 


Nel 1952, dopo la laurea in Medicina, la prima testarda sfida. Mentre tutti i suoi maestri lo volevano chirurgo generale, scelse la cura dei tumori. La specialità considerata degli sfigati perché era difficile, se non impossibile, allora salvare chi si ammalava del terribile male. Negli anni '60, un'altra sfida contro i dogmi della mastectomia radicale che nessuno osava contestare: lui cominciò a sperimentare una chirurgia meno devastante, la quadrantectomia. Ed ebbe ragione fino al riconoscimento da parte della società scientifica americana di chirurgo oncologo del secolo. Ma prima, per anni, gli istituti americani non lo invitavano nemmeno a parlare. L'italiano che aveva sfidato la medicina americana su una terapia divenuta dogma. Veronesi non ha mai accettato i dogmi, tantomeno religiosi. Agnostico fin da ragazzo, ha sempre cavalcato, da intellettuale e politico (socialista come il padre), quello che riteneva giusto nella sua mente e nel suo cuore: a favore dei matrimoni gay, antiproibizionista, contro l'ergastolo e la pena di morte, a favore dell'eutanasia, del testamento biologico, a favore della fecondazione eterologa e della sperimentazione sugli embrioni, difensore degli Ogm, animalista convinto.

Lui il tumore lo ha sfidato davvero, non è riuscito a batterlo ma ha portato l'oncologia internazionale a essere molto vicina al successo. Prima all'Istituto dei tumori di Milano, poi dal 1991 all'Istituto europeo di oncologia da lui fondato. Senz'altro nei numeri delle guarigioni. Ma c'è un aspetto della sua medicina che deve essere ricordato: l'umanità. Diceva sempre: «Una carezza vale più di un lungo discorso. Un medico, o meglio un bravo medico, non deve mai dimenticarsi di mettere il paziente al centro di tutto, di instaurare con lui un rapporto autentico». Ma non basta. Può sembrare un paradosso, eppure mi ripeteva spesso nel momento in cui discutevamo la stesura di un libro: «Il medico curante dovrebbe porsi una priorità assoluta: curare i propri assistiti soprattutto quando stanno bene, occuparsi di loro proprio quando sono in buona salute». La sua attività clinica e di ricerca è stata incentrata per decenni proprio sulla prevenzione (a partire dall'alimentazione: mangiava poco, era vegetariano e digiunava un giorno la settimana) e sulla cura del cancro. In particolare si è occupato come detto - del carcinoma mammario, prima causa di morte per tumore nella donna. Ma alle donne, non solo italiane, ha insegnato come vincere e difendersi dal cancro.

Veronesi è stato sempre dalla parte delle donne. Anzi, in più occasioni, ha sostenuto la superiorità morale e intellettuale della donna sull'uomo. Una volta mi disse: il terzo millennio apre l'era delle donne E poi: «Quella della donna é una grandezza istintiva e completa, una grandezza genetica perché basata su una combinazione di Dna e caratteristiche mentali che porta a una migliore capacità di adattamento». È stato fondatore e presidente della Fondazione per la ricerca sul cancro che porta il suo nome, ministro della Sanità nel 2000-2001 nel secondo governo Amato e senatore. Amante dei film, ogni sera ne vedeva uno e ne scriveva una scheda critica. Quello che però spesso mi ricordava era «Il paziente inglese», e quelle fiale di morfina che indicano, pur nel silenzio e senza alcuna spiegazione, l'imminente eutanasia. Un suo cruccio: non aver visto leggi italiane sul testamento biologico e la libertà di scegliere il proprio fine vita. Chissà cosa aveva detto lui ai suoi familiari riguardo a questa scelta di morte? Mi ricordo una sua riflessione: «L'aspetto più crudele della malattia, senz'altro di quella tumorale, è la progressiva solitudine del malato».

Professore, lo stimolavo, ma è solo anche il medico? «Sì, quello che agisce secondo scienza e coscienza, quello che non sceglie la via più facile a vantaggio della propria fama professionale, quello che del malato vuole farsi guida responsabile. La sua è una solitudine angosciosa e intensa», era la risposta. Veronesi, da agnostico qual era, ha sempre legato l'immortalità alle sue opere e ai figli, sette, come espressione del suo Dna. Ma se sarà smentito da un aldilà che non ha previsto si metterà a studiarlo da scienziato, secondo scienza e coscienza.