Quando lo Stato
non sa prevenire

di Titti Marrone
Giovedì 14 Settembre 2017, 23:55 - Ultimo agg. 15 Settembre, 08:16
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«Lo sapevate tutti e non avete fatto niente». È come se fosse rimasto sospeso nell’aria, inciso come un graffio nel cielo di smalto, il grido uscito a Benedetta Durini, la sorella di Noemi, e alla cugina Alma. Quel grido se ne sta, in attesa di risposta, ad accogliere gli ispettori mandati dal ministro Orlando ora che, come si dice, i buoi sono già scappati dalla stalla e il corpo senza vita della ragazzina di sedici anni uccisa dal fidanzato è stato liberato dalle pietre che lo nascondevano.

Non molto distante dalla tomba di Sara Scazzi nella campagna di Avetrana, altro inferno di abiezione umana tra muretti a secco e ulivi sontuosi, un doppio sfregio in questa parte di Sud dalla bellezza fatata ancora intatta. Ci fosse una moviola della vita, si potesse tornare indietro con una macchina del tempo, si andrebbe al giorno della prima denuncia, a quando la mamma di Noemi, Imma Rizzo, non resse più la vista della bella faccia di sua figlia piena di lividi per le botte di lui e lo denunciò ai servizi sociali. Poi di denuncia ce ne fu una seconda, questa volta alla Procura dei Minori di Lecce, e allora i procedimenti legislativi per far luce sui comportamenti violenti di quel ragazzo borderline diventarono due, uno penale e uno civile. E a farlo partire furono i genitori, la sorella, i nonni, i cugini, e d’accordo nel lanciare l’allarme fu tutta la famiglia di quella ragazza irrefrenabile con in corpo l’argento vivo dei sedici anni. La «pazzerella» come diceva sua mamma, però stavolta accecata, ammaliata dall’idea di appartenere a lui, come la vittima predestinata del suo carnefice. Ma per quanto si possa credere nel fato e nella casualità, non può mai esserci, nelle uccisioni di donne per mano di uomo, e men che mai c’è nella brutta storia di Noemi, alcuna predestinazione. Perché i campanelli d’allarme necessari a dare la scossa per sovvertire il destino che sembrava scritto, questa volta erano risuonati, eccome. Le denunce erano state ben due, e che altro può fare una povera famiglia per difendere la sua bambina resa irragionevole da una cosa che le sembrava amore, se non confidare nella legge?


Il ragazzo poi era stato riconosciuto borderline, si era parlato di un degrado psicologico, di condizioni familiari da indagare e per lui era stato ritenuto necessario per più volte il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Però poi nessun provvedimento cautelare ha fatto seguito alle due indagini, neanche l’ombra del divieto di avvicinamento del ragazzo a Noemi, che la famiglia di lei avrebbe desiderato. Il cerchio del suo essere violento, capace di ammazzare, non si è chiuso a bloccarne la determinazione omicida, non è stato tracciato come sarebbe stato necessario da un percorso legislativo pure disegnato dalle denunce della famiglia. Nelle uccisioni di donne per mano di uomini, una delle cose che spezzano il respiro e fanno salire il sangue alla testa è il déjà vu, il senso di già visto. Troppe volte qualcuna viene ammazzata dall’uomo già più volte denunciato, come due anni fa è capitato a Vincenza Alvino, 36 anni, di Terzigno. Né bastano arresti domiciliari, braccialetti elettronici, misure d’interdizione varie. In molti casi una denuncia resta lettera morta, non risulta mai sufficiente, da sola, a erigere una barriera protettiva intorno alla donna oggetto di violenze e minacce.


Si direbbe così che a mancare sia proprio una figura professionale, più che mai necessaria di fronte al dilagare dei femminicidi: quella di qualcuno in grado di esercitare totalmente una presa in carico di una situazione, di vigilare sul ripetersi di minacce e atti violenti.
Senza di ciò, senza un controllo sociale attento e articolato del fenomeno, storia per storia, oltre a non avere conseguenze, la denuncia rischia addirittura di innescare atti vendicativi, ad amplificare i comportamenti violenti. Come quello dell’assassino di Noemi, che si è accanito a demolire l’auto dei genitori di lei quando ha capito di essere sospettato.
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