Giovani emarginati: la scuola non aiuta a trovare un lavoro

Giovani emarginati: la scuola non aiuta a trovare un lavoro
di Oscar Giannino
Lunedì 23 Maggio 2016, 09:32 - Ultimo agg. 17:59
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Il problema più rilevante delle diseguaglianze in Italia è quello a danno dei giovani. È questa l’amarissima lezione della relazione annuale sul 2015 dell’Istat, rilasciata venerdì scorso. E per riequilibrare la bilancia occorrerebbero diversi mutamenti di fondo. Anzi. Bisognerebbe proprio che la politica nazionale facesse una scelta strategica completamente diversa, rispetto a quelle che dominano l’agenda pubblica economica nazionale. Essa è oggi tutta concentrata sulla sostenibilità della finanza pubblica a breve, sulle frazioni di punto di Pil di più deficit concessici dall’Europa, su quali bonus non universali ma a questi e quelli decisi discrezionalmente dalla politica sotto elezioni e referendum.

È tutto al contrario, che bisognerebbe procedere. 
Poiché l'ingiustizia tra generazioni determina conseguenze sempre più disastrose nel lungo periodo, la politica dovrebbe anteporre a tutto scelte di lungo periodo invece di pensare ai sondaggi a breve. Come dite? Pensate sia impossibile? Bene, allora però bisogna saperlo: andremo a sbattere, è assolutamente certo. Ricordiamo almeno qualcuno dei dati Istat che descrivono l'inferno giovanile in Italia. Il 70,1% dei maschi tra i 25 e i 29 anni e il 54,7% delle loro coetanee vive ancora in famiglia nel 2015, per mancanza di reddito. Il tasso di occupazione italiano nel 2015 è stato del 56,3%, rispetto a una media UE del 65,6%.

Ma il punto è che malgrado Jobs Act e massiccia decontribuzione alle imprese per i nuovi contratti, gli occupati giovani non salgono ma scendono. Quelli tra i 15 e i 34 anni di età erano a fine 2015 solo 39,2% in Italia, rispetto a una media europea del 55,7%, mentre quelli 35-49enni da noi sono il 71,9% rispetto a 80,2% in Ue, e tra gli over 50enni italiani il 56,3% sono occupati, rispetto al 61,8% europeo. Si registrano in Italia tra i 15 e i 29enni oltre 2,3 milioni di individui non occupati e non in formazione (i famosi Neet), e il 96% tra loro ha tra i 18 e i 29 anni.Queste terrificanti statistiche hanno puntuale conferma nei dati sull'andamento del reddito e della ricchezza per coorti di età, rilevate dalla Banca d'Italia.

Fatto pari a 100 il reddito medio equivalente del 1995, quello degli italiani ultra 64enni a fine 2014 era salito a 117, quello della fascia tra 19 e 34 anni era sceso a 88. Sempre fatto pari a 100 lo stock di ricchezza media (mobiliare e immobiliare, al netto delle passività finanziarie) del 1995, a fine 2014 per età del capofamiglia essa era salita da 100 a 160 in caso di ultra 65enni, mentre è scesa da 100 a 40 (sì, non è un errore di battitura) per chi ha tra i 19 e i 34 anni. In sintesi estrema, questo è ciò che riserviamo ai giovani. Ingresso tardissimo sul mercato del lavoro. Inizio ad età avanzata di regolarità contributiva previdenziale. Possibilità decrescente di vivere in proprio, e tanto meno di dedicarsi a un progetto-famiglia con casa e figli. Reddito bassissimo, di patrimonio poi meglio non parlarne (tranne quello eventualmente ereditato). Altissimo tasso di dipendenza dalle reti d'integrazione familiare, in presenza di un forte coefficiente tendenziale d'invecchiamento medio di genitori e nonni. Conseguenze di medio-lungo periodo: alta e persistente inoccupazione giovanile; bassi consumi nella coorte d'età che ha la più alta propensione a farlo sul reddito disponibile, rispetto agli anziani; squilibrio crescente dei conti previdenziali, visto che il nostro resta un sistema a ripartizione, cioè chiediamo ai giovani che lavorano tardi e con contratti a tempo di pagare le pensioni retributive in essere di milioni di italiani più anziani, quelle pensioni che i giovani mai matureranno e che, col sistema contributivo, saranno in ogni caso assai più basse di quelle che coi loro contributi fanno pagare oggi ogni mese; demografia sempre più compromessa, e di conseguenza crescente bisogno di immigrati con tutti i problemi connessi - per sostenere i conti di lungo periodo del welfare italiano, cioè l'equilibrio tra gettito di imposte e contribuiti da una parte e prestazioni dall'altra (in ovvia crescita, con l'invecchiamento dell'età media della popolazione).Se questo è il quadro, cerchiamo allora di individuare almeno alcuni, dei «cambi di prospettiva» che bisognerebbe realizzare. Nessuno di questi si determina attraverso bonus discrezionali a tempo, servono misure universali di lungo periodo.

Scuola. I milioni di disoccupati e NEET giovani non si spiegano solo per la crisi e la carente offerta di lavoro. C'è un problema gigantesco in Italia, dovuto al fatto che scuola e università pubbliche continuano a non fornire le skills oggi richieste dal mix delle specializzazioni dell'economia italiana: secondo diversi studi empirici quasi il 40% degli inoccupati giovani (tra chi cerca attivamente lavoro) e dei NEET che né più studiano né cercano lavoro, si spiega infatti col fatto che i loro diplomi e lauree valgono praticamente nulla agli occhi delle imprese. E di ciò rappresenta un gap ancora più serio in un paese che ha la seconda manifattura in Europa dopo quella tedesca, e che quindi ha bisogno di tecnici preparati già alla fine del ciclo secondario. Purtroppo, la riforma della Buona Scuola ha sì avviato a soluzione il precariato dei docenti nella scuola, ma non ha minimamente affrontato con serietà il riorientamento del ciclo secondario, terziario e post terziario secondo il modello «duale» tedesco, che attribuisce alla formazione professionalizzante decisa insieme alle imprese, che la finanziano uno scopo pariteticamente «degno» rispetto a quello di una formazione meramente accademica. Anzi, in Italia il più dei docenti trasmette agli studenti una sacrale contrarietà a tale scelta: «Fuori le aziende dalla scuola pubblica» è il mantra autolesionista che ancora domina.

Lavoro. Politica e sindacati maggioritariamente pensano oggi che solo prepensionando gli anziani, rispetto ai tetti di vecchiaia stabiliti dalle legge Fornero, daremo più occupazione ai giovani. E' un errore: non c'è nessun dato che confermi tale impostazione. Lo stessa relazione Istat che abbiamo citato all'inizio dedica un capitolo intero allo studio della questione, e conclude che la diversità delle skills tra aspiranti lavoratori giovani e disoccupati over 50enni già formati spinge le aziende comunque ad assumere i secondi e non i giovani, in caso di prepensionamenti. La staffetta generazionale è un'illusione. Come del resto si desume dal fatto che la stragrande maggioranza dei 186 mila occupati aggiuntivi in Italia nel 2015 grazie alla decontribuzione massiccia alle imprese si è concentrata nella fascia over50, mentre gli occupati giovani sono diminuiti. Aumentando le coorti dei prepensionati, crescerà invece l'onere sulle spalle dei più giovani che ogni mese ne pagheranno le pensioni, prima del tempo. Servirebbe molto più una diversa scelta, per sgravare e non aggravare ciò che lo Stato chiede ai giovani, quando e se iniziano a lavorare.