Si decise tutto tra aprile e maggio di 63 anni fa. Fu nell’aula a San Domenico Maggiore della seconda corte d’assise di Napoli che nel 1959 si celebrò il processo per omicidio, con imputata Pupetta Maresca. La prima donna della camorra, la vedova di Pasquale Simonetti, detto Pascalone ’e Nola, che era stato uno dei principali capi della camorra che imponeva i prezzi al mercato ortofrutticolo. Tutto era successo quattro anni prima: la morte di Pascalone, ucciso nel luglio 1955 da Gaetano Orlando; la vendetta, tre mesi dopo, di Pupetta che uccise Antonio Esposito da lei ritenuto il vero mandante della morte del marito, che aveva sposato solo pochi mesi prima dell’uccisione.
Le lettere
Per “Il Mattino”, il processo venne seguito in tutte le sue udienze giornaliere da Federico Frascani, destinato a diventare il principale biografo di Eduardo De Filippo. Frascani fece quella sua esperienza di cronista giudiziario, proprio come Salvatore Di Giacomo che per il “Corriere di Napoli” a fine ’800 seguì a Castelcapuano alcuni processi. Al quotidiano napoletano, allora diretto da Giovanni Ansaldo, si occupò del processo a Pupetta Maresca e Gaetano Orlando anche Enrico Marcucci.
Una ragazzina innamorata, che usa termini presi dalle favole, persa per un uomo forte, deciso e più grande di lei. Molti “Pasquale, adorato mio”, in tempi di colloqui per messaggi scritti su carta. «Aspetto tanto la tua libertà» scrive ancora Pupetta l’otto agosto del 1953. E, quando a dicembre muore la mamma di Pascalone, gli manda parole accorate: «La tua cara mamma veglierà su di noi, sarà lei a farci portare questo duro fardello e lei sarà sempre la nostra consolatrice».
Il processo
Fu l’avvocato Renato Pecoraro, difensore di Pupetta, a esibire le lettere al processo. Era la dimostrazione di una donna innamorata, giovane, che aveva agito sparando, spinta solo da un impeto passionale per vendicarsi di chi era stato il mandante dell’omicidio del suo uomo, sostenne il penalista. Pupetta scriveva lettere, ma anche poesie, in cui si diceva “incatenata dall’amore per Pascalone”. Dichiarò un testimone al processo: «Pascalone e Esposito erano amici, ma non volevano che Simonetti si intromettesse nei loro affari, cioè nel commercio delle patate e della frutta. Volevano che seguisse un’altra strada».
Sabato 16 maggio 1959, alle 23,15, dopo dodici ore di camera di consiglio, al termine di un dibattimento di 33 udienze, arrivò la sentenza di primo grado. Gaetano Orlando, omicida di Pascalone, venne condannato a 30 anni; Pupetta Maresca a 18 anni e sei mesi di arresto; il fratello Ciro, considerato suo complice nell’omicidio di Esposito, a 12 anni e 4 mesi. Scriveva Federico Frascani sulla prima pagina del “Mattino” il 17 maggio 1953: «Pupetta ha pianto quando il presidente ha finito di leggere il dispositivo. Ma non per sé, non per quei diciotto anni che dovrà trascorrere in carcere. Piangeva per Ciro, il giovane fratello che lei ha così appassionatamente difeso durante il processo».
Dieci anni dopo, Pupetta fu graziata e uscì dal carcere. Quando sparò contro Esposito era incinta del figlio Pasquale da sei mesi. Proprio quel Pasqualino che fu poi ucciso in un agguato camorristico nel 1974, senza che il corpo fosse mai trovato. Lupara bianca. Pupetta avrebbe poi sposato Umberto Ammaturo, boss del narcotraffico, diventato collaboratore di giustizia nel 1993, da cui ebbe due figli. Animatrice dei gruppi della nuova famiglia contro la Nco cutoliana, divenne la prima vera donna della camorra napoletana nel dopoguerra. È morta a 86 anni, il 29 dicembre scorso. Scrisse Federico Frascani, nel pezzo sulla sentenza del 16 maggio 1959: «La portata della decisione forse non può essere compresa, valutata a fondo, se non si tiene conto del fatto che la Giustizia non deve solo punire, ma anche prevenire. E deve prevenire soprattutto quei delitti che, per l’alone di passionalità di cui si circondano, più facilmente incontrano l’indulgenza delle folle».
Mai processo, come quello di Pupetta Maresca, unì così tanto passionalità, crimine organizzato, rituali e convinzioni malavitose, ma anche amore intriso di violenza. E le lettere di Pupetta, mostrate nell’aula di San Domenico Maggiore da molti anni in disuso in quella che fu sede giudiziaria, ne furono una prova.
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