Delitto di Fratte, la difesa del boss
«Altri i killer, in carcere c’è chi sa»

Delitto di Fratte, la difesa del boss «Altri i killer, in carcere c’è chi sa»
di Angela Trocini
Venerdì 23 Giugno 2017, 08:00 - Ultimo agg. 08:23
3 Minuti di Lettura
«Non siamo i killer di Fratte». A dirlo con forza, davanti ai giudici della Corte di assise di Salerno dove si sta celebrando il processo per il duplice omicidio di Antonio Procida e Angelo Rinaldi, sono i tre imputati. All’udienza di ieri Matteo Vaccaro, il figlio Guido e Roberto Esposito sono stati sottoposti ad interrogatorio e Matteo Vaccaro ha ipotizzato anche una pista alternativa da ricercare negli affari delle due vittime: «Il mio telefonino, il pc, casa mia sono stati rivoltati da cima a fondo e non è stato trovato nulla. Mi chiedo se siano stati fatti accertamenti sui telefoni delle due vittime in modo da capire i loro contatti. Persino in carcere mi è stato detto questo». Vaccaro ha anche affermato di essere stato lui, per primo, a dare tre-quattro schiaffi ad Antonio Procida durante la discussione avvenuta nella tarda mattinata del 5 maggio 2015 per l’affissione dei manifesti elettorali: «Di cosa, quindi, mi sarei dovuto vendicare? E prima di quel giorno non avevo avuto nulla a che fare con loro in quanto avevano precedenti penali ed io avendo l’affidamento in prova volevo stare lontano dai guai».

Matteo Vaccaro ha poi ripercorso le ore precedenti al duplice omicidio, avvenuto il 5 maggio di due anni fa intorno alle 16,30 in via Magna Grecia a Fratte a pochi metri dalla casa di una delle due vittime, l’incontro fugace avuto con il figlio Guido davanti ad un bar e il caffè preso con Roberto Esposito che gli chiese dell’accaduto: «ma lo rassicurai dicendo che non era nulla di grave. E che non c’era nessun problema quando Esposito mi disse che poteva parlare con il Procida», ha continuato a raccontare Matteo Vaccaro (difeso dagli avvocati Massimo ed Emiliano Torre) riferendo anche gli spostamenti a ridosso dell’azione omicidiaria ricordando che sulla strada tra Ogliara e Fratte, all’epoca, c’era un semaforo per dei lavori: «Poi mi sono infilato in una stradina tanto che c’è una ripresa della telecamera che si strova sulla rotatoria dopo Cappelle. Ma strano che non sono stato ripreso anche al contrario. In un minuto e una manciata di secondi, secondo le accuse, avrei commesso un omicidio e ritornato a casa. Oppure mandato mio figlio a commettere un delitto. Lui che aveva un futuro assicurato con il suo bar».

Anche Guido Vaccaro (difeso dall’avvocato Giuliana Scarpetta) e Roberto Esposito (difeso dall’avvocato Fabio De Ciuceis) hanno raccontato la loro verità ai giudici di assise: i due amici, del resto, erano andati a parlare con Antonio Procida: «Solo per chiedergli spiegazioni. Non lo trovammo. E così dissi a Salvatore Procida di riferire ad Antonio che l’avevo cercato». Guido Vaccaro, su specifica domanda del pm Vincenzo Montemurro, non ha saputo dire però se «l’imbasciata andò a buon fine». Poi Roberto Esposito ha anche chiarito come mai si era interessato alla cosa: «con i Rinaldi mi sono sempre rispettato e stimato. Siamo della stessa zona e ci conosciamo. Io non sono responsabile di questo duplice omicidio, non c’entro niente». E ricorda ai giudici come i suoi movimenti sono tracciati da telecamere (quando ho parcheggiato l’auto davanti al tabacchino) e dalle ore 16 di quel giorno non lo si vede più e di ritorno a casa (che secondo Rinaldi corrisponderebbe all’ora dell’omicidio) avrebbe anche ricevuto una telefonata da un fornitore del locale che aveva a Torrione: «Perché non si controllano le celle che hanno agganciato il mio cellulare? Lo ripeto non sono io il killer di Fratte».
© RIPRODUZIONE RISERVATA