Einstein, il cosmo tra scienza e Dio

Einstein, il cosmo tra scienza e Dio
di Massimo Capaccioli
Domenica 20 Agosto 2017, 18:58
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Il 1916 fu un anno cruciale per l'Europa. I venti di guerra spiravano ancora a favore delle Aquile nere. Più agguerriti che mai, gli Imperi centrali, congelato il fronte russo, s'apprestavano a sferrare l'attacco risolutivo al quello occidentale, e a punire il giovane regno d'Italia, reo d'avere cambiato casacca all'ultim'ora. A Berlino il chimico Fritz Haber stava applicando alla produzione di un'arma subdola e micidiale, un gas urticante noto poi col nome sinistro di Yprite, quella stessa profonda conoscenza delle intime proprietà della materia che gli aveva consentito di sintetizzare l'ammoniaca a partire dai suoi costituenti. Una scoperta che l'aveva eletto tra i benefattori dell'umanità per le straordinarie ricadute in agricoltura e nella lotta alla fame, e che appena tornata la pace gli avrebbe guadagnato una medaglia Nobel, a dispetto dei crimini di guerra - un po' come sarebbe successo qualche decennio dopo a Wernher von Braun. Amico e correligionario di Albert Einstein, Haber era stato accecato da un ottuso patriottismo, lo stesso che aveva ottenebrato la mente di gran parte degli scienziati tedeschi.

All'ossessiva idea di una Germania über alles aveva aderito persino Max Planck, l'anziano maestro che per primo aveva inteso l'essenza quantistica del microcosmo dove, in barba a Linneo, la natura facit saltus. Vent'anni dopo la sconfitta, la medesima potente droga della superiorità raziale avrebbe riacceso la sete di sangue del dio Marte, trascinando il mondo in un olocausto senza uguali. In questo scenario da tragica saga nibelunga, faceva eccezione l'astro nascente della fisica di lingua tedesca, un ebreo di nome Albert Einstein. La sua mente acutissima e irrequieta lo portava a odiare la guerra e a spregiare i nazionalismi e i razzismi. Cercava il bello nella vita e nella natura, di cui voleva carpire i segreti per amarla meglio e onorarla alla maniera del suo prediletto filosofo Baruch Spinoza. E proprio nel 1916, in una Berlino ubriaca di guerra, Einstein aveva dato lettura del suo terzo e ultimo lavoro su una nuova teoria che rivoluzionava l'interpretazione della gravità, ossia della forza che aveva contribuito a rendere immortale Isaac Newton.


Secondo il fisico inglese, questa forza si esercita tra qualunque coppia di corpi dotati di massa, affievolendosi rapidamente al crescere della mutua distanza: un'attrazione fatale trasmessa in modo misterioso in uno spazio con la funzione di palcoscenico per meccaniche commedie cadenzate dal tempo. Pur ricco di innumerevoli e stupefacenti conferme, il modello newtoniano era entrato nella generale crisi in cui si dibatteva la fisica di fine Ottocento. Ci s'era accorti, tra l'altro, che la regola galileiana dell'invarianza del punto di vista di osservatori diversi in moto relativo traslatorio e uniforme valeva solo per i fenomeni meccanici e non per il mondo dell'elettromagnetismo magicamente interpretato dallo scozzese James Clerk Maxwell con le sue quattro celeberrime equazioni. Nel 1905, sacrificando alcuni capisaldi di una fisica troppo prona alla quotidiana esperienza sensibile, Einstein trovò la via per superare l'impasse. La sua relatività speciale poneva fine alla sorniona indipendenza dello spazio e del tempo, costringendoli a cooperare a servizio di ogni osservatore: come nel diritto romano, unicuique suum! Significava un grande passo in avanti ma non il raggiungimento di una vera democrazia. La descrizione unitaria dei fenomeni al mutar del punto di vista coinvolgeva infatti solo la ristretta oligarchia dei cosiddetti osservatori inerziali. Per generalizzarla a tutti, e a qualunque condizione di moto relativo, serviva un nuovo modello della gravità. In 10 anni di lavoro matto e disperatissimo, a cavallo tra il 1915 e il 1916, Einstein partorì la relatività generale. Essa dava allo spazio-tempo la dignità di ente fisico, la cui geometria poteva essere modificata dalla presenza della materia, con la conseguente alterazione dei naturali percorsi rettilinei. Una sorta di reciproca influenza tra attori, palcoscenico e rappresentazione, poco intuitiva e difficile da digerire. Al di là degli elogi di facciata e di una pronta verifica di una sua previsione - la deflessione della luce osservata durante l'eclisse totale di sole del 1919 - la relatività generale non venne accolta con favore. Einstein tirò comunque dritto e volle subito applicarla all'ambito gravitazionale più vasto, l'universo nel suo insieme. E qui fece un azzardo, formulando un'ipotesi che egli stesso avrebbe giudicato poi il più grande errore della sua vita, e che si dimostrò invece essere un'altra delle sue straordinarie intuizioni.


Influenzato dal panteismo di Spinoza, che vedeva Dio nelle cose, egli era persuaso che l'universo dovesse condividere la caratteristica divina della immutabilità e della perfezione. Ciò che Agostino d'Ippona aveva scritto di Dio nelle Confessioni: «Tu invece sei sempre il medesimo, e i tuoi anni non finiscono mai», Einstein lo pensava per il cosmo, che doveva essere mediamente sempre uguale a se stesso con il fluire del tempo, ossia statico! Le sue stesse equazioni parevano dargli torto, però. La gravità, anche quella della relatività, è infatti una forza meramente attrattiva che, in assenza di un adeguato contrasto, non consente di raggiungere un equilibrio statico. Lo sapeva anche Newton. A farlo riflettere sulla questione era stato, nel 1692, un scorbutico e ambizioso giovanotto, Richard Bentley, incaricato di preparare una conferenza-sermone che evidenziasse il ruolo di Dio nell'aggiustare le carenze della fisica - una tesi che sarebbe di certo piaciuta a Platone.


Erano trascorsi solo 5 anni dalla pubblicazione dei Principia, l'opera che avevano mostrato la potenza descrittiva e predittiva del nuovo modello meccanico accoppiato alla gravità: una forza attiva sia in terra che in cielo, con buona pace dell'apartheid immaginata da Aristotele per chi sta sotto o sopra la sfera della Luna. Messo da Bentley di fronte al problema del collasso di un universo dove ogni corpo tirava a sé tutti gli altri, Newton, che era profondamente religioso, si cavò d'impaccio invocando la volontà del Divino architetto a prevenire la catastrofe con continui piccoli interventi di manutenzione della opera sua. Anche Einstein credeva in Dio, ma non era disposto ad accettare la commistione tra scienza e miracoli. Si propose perciò di cercare un ente fisico capace di mantenere l'equilibrio del cosmo senza bisogno di disturbare il soprannaturale. Pensò di averlo trovato in un'ipotetica forza repulsiva che, al contrario della gravità, cresceva all'aumentare della distanza. Si trattava solo di accordare le due squadre di questo tiro alla fune per ottenere un universo eterno e immutabile. Intanto, un gesuita belga e un meteorologo russo di origine ebraica avevano scovato un altro modo per evitare, o almeno ritardare, il collasso del cosmo senza introdurre nuovi enti, per la felicità di Guglielmo d'Ockham, un francescano inglese che già nel Trecento teorizzava la spending review degli enti (fisici) inutili. Il prezzo da pagare era la rinuncia all'equilibrio statico a vantaggio di un equilibrio dinamico: quello che fa sì che un sasso lanciato in aria non caschi (subito) al suolo e che evita alla Terra di precipitare sul Sole.


Tutto quanto serve allo scopo è un'adeguata energia di movimento che così guasta lo scenario dell'eterna paralisi senza inizio e senza fine. Proprio ciò che Einstein aveva voluto evitare e che lo induceva a respingere le splendide manipolazioni delle sue equazioni fatte da Georges Lemaître e Aleksandr Aleksandrovic Friedman. Passò qualche anno, e nel 1931 Herr Albert, che nel frattempo aveva toccato i vertici della fama, venne invitato a visitare i grandi telescopi di Monte Wilson in California. In Europa non tirava più una buon'aria: il fascismo spadroneggiava in Italia e il nazionalsocialismo bussava brutalmente alla porta di una Germania assetata di vendetta. Einstein si trovava in viaggio per guardarsi attorno e cercare un luogo dove vivere in pace e in libertà. S'imbatté invece nella prova che la sua idea del mondo era sbagliata. All'Osservatorio incontrò l'astronomo Edwin Hubble il quale lo informò di aver raccolto, con l'aiuto di un ex-mulattiere, l'evidenza che l'universo delle galassie è davvero in espansione, esattamente come previsto da Friedman e da Lemaître.


Una dilatazione dello spazio uguale in ogni direzione e a un ritmo decrescente con la distanza, conseguente a un misterioso impulso iniziale, detto poi Big Bang.
Fu un duro colpo per il suo ego ipertrofico, seppure sapientemente mascherato dall'ironia; ma anche una mortificazione inutile! Vestita di altri panni, la forza repulsiva partorita da Einstein per ragioni di fede e poi dismessa a valle della scoperta di Hubble, è ricomparsa di recente sotto mentite spoglie quando ci si è accorti che, 4,5 miliardi d'anni fa, l'espansione cosmica ha preso ad accelerare, come se si fosse scatenato un motore rimasto a bassi giri per molto tempo. Ma questa è un'altra storia, da raccontare a parte. Concludendo, come il boss delle barzellette, Einstein ha finito per avere ragione pur avendo torto. Che dire? Wunderbar, waw, chapeau, maravilloso.
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