Silvio Orlando: «Al Vomero la borghesia ha barattato la bellezza per la comodità»

Silvio Orlando
Silvio Orlando
Domenica 18 Giugno 2017, 16:32 - Ultimo agg. 19 Giugno, 12:36
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«Sono un attore. Un artista senza progetto. Sempre pronto a farsi piacere le idee degli altri, a contenersi, ad annullare la propria intelligenza davanti al regista per non creare imbarazzo diventando ingombrante o antipatico ai suoi occhi». A meno di due settimane dai suoi primi sessant'anni, Silvio Orlando mangia gamberi in un ristorante, si racconta in una intervista al Messaggero, firmata da Malcom Pagani, e sembra disposto a fare più di un passo indietro: «Non credo di essere un uomo di cinema, di teatro o di televisione. Ho fatto tutte queste cose, ma non sono un senatore che ha conquistato un suo posto o un ruolo all'interno di quel mondo. Oggi, come succede anche a De Niro, mi capita di fare meno film di ieri, ma penso di essere stato fortunato e non conosco la depressione dell'attore perché non mi sono mai sentito di far parte di niente e da niente sono stato buttato fuori. Sono entrato, mi sono fatto un giro ed è finita lì».

Orlando parla anche di Napoli, dove è nato: «Una città tragica che ha la dannazione di doversi tenere in piedi ogni santo giorno e nella quale ironia e teatralità servono a sopravvivere e a non impazzire», forse per mestiere,  lui vive da molti anni - apolide e marziano - a Roma «sono ancora in affitto» e potrebbe star bene in molti luoghi e da nessuna parte: «Sono cresciuto nello stesso quartiere di Paolo Sorrentino, al Vomero, il luogo in cui l'alta borghesia napoletana andava storicamente in villeggiatura. Il sogno della piccola borghesia era liberarsi delle case fatiscenti del centro storico per avere abitazioni eleganti e impersonali con il marmo nei bagni, nell'assoluto vuoto di relazioni umane di un quartiere venuto su in fretta, al ritmo febbrile dei primi anni 60. In questo esilio forzato e in questa negazione della bellezza in nome della comodità, non avvertire lo sradicamento è difficile».

Orlando lo ha avvertito:«In modo fortissimo. Quando parli di Napoli, parli di odori, rumori, volti e voci che nella testa delle persone rappresentano qualcosa di molto preciso. Da quel mondo io ero stato strappato a quattro anni per emigrare in alto, al Vomero, la Collina Fleming della mia città. Un posto in cui sentire di avere delle radici per me è impossibile».

 
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