Romano, “Tota” aggiustatutto
«Mi regalarono un sogno»

Romano, “Tota” aggiustatutto «Mi regalarono un sogno»
di Pino Taormina
Mercoledì 10 Maggio 2017, 08:59
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Ore 17.40 del 10 maggio di trent’anni fa. Spogliatoio del Napoli. Maradona strappa il microfono dalle mani di uno straripante Giampiero Galeazzi, inviato della Rai. «Le interviste le faccio io!» dice el Pibe de Oro felice proprio come lo era dieci mesi prima a Città del Messico, nel ventre dell’Azteca. «’O mamma mamma sai perché mi batte il corazon...». Diego si avvicina a Romano che Diego in vita sua non ha chiamato mai né Ciccio né Francesco ma sempre e solo “Tota”, la mamma che pensa a tutto («sicuro? perché il vero significato è un segreto tra me e Diego»), e gli dice: «Sei il più fortunato di tutti: noi abbiamo lavorato due anni per questa gioia e tu sei venuto fresco fresco...».
Romano in fondo è vero: lei era arrivato solo a fine ottobre.
«Pierpaolo Marino ebbe quasi una illuminazione: stava trattando Junior e Barbas ma invece scelse me. Andò a parlare con il presidente della Triestina De Riù e in poche ore ero del Napoli. Dovevo giocare a Bari ma la sera stessa partì con mio padre per Napoli. Il giorno dopo feci le visite mediche, poi andai a Saviano per salutare i parenti di papà e a San Vitaliano quelli di mamma e il martedì ero già a Soccavo».
Com’è l’impatto con quei fenomeni?
«Li trovo un po’ giù. Sono reduci dal 2-2 in casa con l’Atalanta e hanno addosso ancora la delusione per l’eliminazione a Tolosa in Coppa Uefa. Bianchi organizza per me una partitella: Maradona resta per conto suo a guardare. Dopo un po’ fa un cenno con il capo: è il suo ok». 
 
 


Lei è di Saviano, un ritorno a casa?
«Sì, a cinque anni da Fressuriello partiamo per Reggio Emilia, papà, mamma e cinque fratelli ma i primi calci a un pallone li do sul campo detto «Scarola» con mio padre che mi portava a giocare a bordo della sua Alfasud con la bandiera azzurra con il ciuccio e i dischi 45 giri che parlavano di Sivori, Cané, Altafini, Juliano». 
Esordisce in C con la Reggiana e subito arriva il Milan?
«Edmondo Fabbri mi segnala ai rossoneri: prima amichevole a Livorno e mi rompo il perone. Ci mettono due mesi per diagnosticarmi la frattura. Poi torno e debutto in Coppa dei Campioni: dicono che somiglio ad Antognoni. Ma io mi sentivo simile anche a Pecci».
E al Napoli prende proprio il suo posto.
«Prima partita, con la Roma. Tre allenamenti con Maradona. Bianchi mi chiama il venerdì sera: “credo che tu sia pronto”. Io non mi tiro indietro: troppe volte il destino era stato amaro con me e di sicuro non avrei gettato al vento questa occasione. Il mister a livello tattico fu straordinario: fece due squadre in una, con sette a difendere e tre ad attaccare. Più Garella».
È il 26 ottobre: vincete 1-0.
«Torniamo primi in classifica e da allora lo saremo rimasti fino all’ultima giornata. La sera papà guarda la Domenica Sportiva che dice “il Napoli è in silenzio stampa, peccato volevamo ascoltare Romano reduce da un grande esordio”». 
Non si è mai montato la testa?
«Macché. Il mio inserimento era stato veloce: Bianchi e Maradona mi avevano dato serenità nonostante la scelta di catapultarmi in campo subito: è vero che avevo giocato 4 anni al Milan, ma in fondo ero una scommessa. Il mio arrivo coincideva con un ciclo terribile: dopo la Roma avremmo dovuto giocare con l’Inter e la Juventus».
Con l’Inter sette giorni dopo finisce 0-0.
Ma meritavamo di vincere. Zenga fece una serie di miracoli.
Poi arriva il 9 novembre, l’epico successo con la Juventus.
«Ho due ricordi: i 20 mila tifosi azzurri dello stadio Comunale e gli stessi 20 mila tifosi azzurri che poi vennero all’aeroporto di Caselle a farci festa. Lì sono stato investito da quell’entusiasmo e ho davvero capito quello che la gente voleva».
Con quel 3-1 non potevate più nascondervi?
«Il gol di Laudrup ci fece tirare fuori tutta la nostra rabbia: capimmo la forza di quel Napoli».
Inizia il 1987 e arriva la prima caduta, a Firenze.
«È la prima prova vera: l’Inter vince con l’Atalanta e ci raggiunge in classifica. Capiamo che siamo una grande squadra solo se ci rialziamo subito. La domenica dopo arriva l’Ascoli, fa freddo quasi nevica: soffriamo tanto, poi nella ripresa ci scateniamo e io segno anche un bel diagonale. Finisce 3-0. L’Inter perde a Verona e noi torniamo da soli al primo posto».
La prima fuga: il 19 febbraio vincete a Torino e i nerazzurri cadono a Roma?
«Ma nessuno parlava di scudetto. Non era scaramanzia, ma eravamo lo specchio del nostro capitano, Diego. Lui era umile e noi eravamo umili come lui. Sapevamo che i conti si facevano alla fine: il campionato italiano, allora, era come un mondiale per club e bisognava tenere i piedi per terra».
Come faceva a far rientrare Maradona?
«Era tra i primi ad ascoltarmi. Lui si comportava come un semplice gregario».
Arrivate a +5 e perdete con l’Inter al Meazza.
«Prendiamo il gol di Bergomi a 5 minuti dalla fine. E subito dopo abbiamo 4 occasioni per segnare. Perdiamo ma capiamo da quella reazione di essere davvero i più forti».
La domenica dopo riecco la Juve.
«È la gara che ci fa capire che il traguardo è vicino: segna prima Renica, pareggia Serena e poi io. De Napoli nel festeggiare mi dà un pugno».
La festa poteva iniziare?
«I tifosi già mi volevano bene ma dopo quel gol non si capì più nulla. Per un mese mia moglie Patrizia non poteva andare in giro a fare la spesa. Le regalavano di tutto. “Fate questa spremuta di arance a Ciccio”. La vittoria mise fuori gioco la Juventus». 
Però, tra Empoli e Verona c’è il momento più nero.
«In quei momenti lì l’anima della squadra tornava a farsi sentire. Bruscolotti era fondamentale nel rimettere le cose a posto nello spogliatoio, quello che ci prendeva per mano, dentro e fuori dal campo».
Vincete col Milan e pareggiate a Como: la festa è vicina?
«Manteniamo l’equilibrio, la tranquillità e la concentrazione. La Coppa Italia ci aiuta a farlo».
Il 10 maggio 1987 è scolpito nei suoi ricordi più belli?
«Non vedevamo l’ora che arrivasse il triplice fischio. La festa dura un mese. E poi un altro mese ancora, quando inizia la nuova stagione.
L’uomo di oggi cosa vuole dire a quel Romano ragazzino che vinse lo scudetto nel 1987?
«Lo sto capendo solo adesso il significato di quel trionfo: a Firenze c’è una targa dedicata ai “ragazzi del primo scudetto” viola. Ecco, anche io sono un ragazzo del primo scudetto, quello del Napoli». 
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