«Nel mondo di Priscilla che si ribellò a Elvis»

Sofia Coppola dirige una pellicola sulla moglie del re del rock

Una scena del film
Una scena del film
di Titta Fiore
Mercoledì 20 Marzo 2024, 09:41 - Ultimo agg. 21 Marzo, 06:37
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I completini color pastello, la cofana di capelli cotonati, il trucco ad ala di gabbiano: quando Priscilla Beaulieu, figlia di un ufficiale americano di stanza in Germania, conosce Elvis Presley, militare nella stessa base, ha solo quattordici anni. Lui dieci in più ed è già il re del rock. Li separa un mondo, eppure sboccia l'amore, un legame romantico fatto di confessioni al chiaro di luna e seratine in famiglia: «Le ragazze le corrono dietro, cosa vuole da mia figlia?» chiede il papà soldato. Ma Priscilla alla fine ottiene il permesso di trasferirsi a Graceland, il regno del divo vulnerabile che ha perso la mamma da poco e ha nostalgia degli Stati Uniti. Promette ai genitori di terminare gli studi, pensa di vivere una favola, si ritrova rinchiusa in una gabbia dorata. È così che comincia la sua nuova vita, dietro le tende chiuse di un villone affollato da una corte pittoresca che non diventerà mai la sua casa.

Premiato alla Mostra di Venezia con la Coppa Volpi alla migliore attrice, Cailee Spaeny, «Priscilla» di Sofia Coppola, tratto dal libro autobiografico della vedova Presley, Elvis and Me, arriva dal 27 marzo nelle sale, prodotto da The Apartment (del gruppo Fremantle) e American Zoetrope.

Non una semplice biografia, ma un racconto di formazione che diventa, allo stesso tempo, un affresco d'epoca. «Nei giornali degli anni Sessanta Priscilla veniva descritta come la sposa bambina di Elvis» dice la regista, «ma io ho percepito che c'era un'esperienza molto più interessante da raccontare: cosa si prova a vivere da ragazza una fantasia impensabile e uscirne da adulta, scoprendo la propria identità lungo il percorso. Non ho cercato di fare un biopic, piuttosto un percorso impressionistico, un viaggio emotivo in una storia esemplare».

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Nel 1967 Priscilla sposa Elvis, un anno dopo nasce la loro unica figlia, Lisa Marie, scomparsa prematuramente nel 2023. Ma il matrimonio è turbolento: lui, manovrato dal dispotico manager, il colonnello Parker, la tradisce con Ann Margret e Ursula Andress, lei diventa sempre più insofferente e alla fine lo lascia, libera di prendere in mano il proprio futuro. «Dove ha trovato la forza di dire basta? Me lo sono chiesta tante volte, per me è un mistero» commenta Sofia Coppola collegata da remoto, «il film indaga il modo in cui Priscilla è diventata quello che è, e cosa ha significato a quei tempi essere una donna alla ricerca della propria identità. Lei mi ha detto che aver iniziato a frequentare persone lontane dal mondo di Elvis, che davano peso alla sua opinione, l'ha aiutata a trovare una strada. Poi, quando è diventata madre, non se l'è sentita di crescere sua figlia a Las Vegas.

Mi colpisce che fosse giovanissima, del resto già da adolescente aveva dimostrato molta determinazione decidendo di vivere a Graceland e abbracciare quello stile di vita». Nel film Elvis, interpretato da Jacob Elordi di «Euphoria», non è mai al centro della narrazione, né ci sono le sue canzoni originali, perché la produzione non ha avuto il permesso di usarle: «La Fondazione che porta il suo nome è molto protettiva nei confronti dell'immagine di Elvis» continua la regista premio Oscar, anche Leone d'oro per «Somewhere», «pensavo che avere Priscilla dalla nostra parte, come coproduttrice, potesse aiutare, ma non è stato così». Le musiche sono state firmate dalla band del marito Thomas Mars, i Phoenix. Comunque Presley, puntualizza Sofia Coppola, non rientra nel suo pantheon musicale: «Da ragazza amavo Elvis Costello, Joe Strummer dei Clash e Siouxsie and the Banshees. Del privato di Elvis non sapevo nulla, se non che fosse umorale e dotato di un genio creativo molto particolare. Attraverso Priscilla ho potuto vedere la sua vita com'era dietro le porte chiuse».

La storia della Beaulieu aggiunge un altro tassello alla galleria di personaggi femminili intrappolati nelle gabbie dorate del loro ambiente, come la Marie Antoinette di Kirsten Dunst o la Scarlett Johansson di «Lost in traslation», così efficacemente tratteggiati dalla regista nei suoi film. «Non so bene come, ma qualcosa che le lega certamente c'è, per me raccontare i loro destini complicati è una metafora delle difficoltà che si affrontano ancora oggi. In questo caso m'interessava osservare le donne della generazione di mia madre, il loro ruolo nella società, le loro aspettative e cosa significava avere una figlia adolescente in quegli anni. Anche io ne ho una e mi piaceva il gioco di specchi. Dalle esperienze femminili c'è sempre da imparare».
 

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