Fuocoammare, Rosi su Lampedusa:
«Ha gia vinto l'Oscar che le spettava»

Fuocoammare, Rosi su Lampedusa: «Ha gia vinto l'Oscar che le spettava»
di Titta Fiore
Sabato 25 Febbraio 2017, 09:31 - Ultimo agg. 09:55
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Inviato a Los Angeles

«Su “Fuocoammare” non ho più parole da spendere». Da un anno Gianfranco Rosi gira il mondo con il suo documentario sui migranti che oggi lo porta a un passo dall’Oscar. Gli sembra di aver detto tutto sul grande cuore di Lampedusa, sulla solidarietà come pratica naturale e quotidiana messa in campo dagli isolani, sulla necessità di un cambio di passo nella politica dell’accoglienza. L’ha spiegato e ripetuto tante di quelle volte, da quando ricevette l’Orso d’oro al festival di Berlino dalle mani di Meryl Streep, che ancora si stupisce dello stupore del mondo di fronte alle immagini inanellate dal film. L’altra sera, alla proiezione ufficiale nella sede dell’Academy dei documentari candidati, il pubblico di addetti ai lavori si è alzato in piedi in una commossa standing ovation. L’America dei muri e dei respingimenti al confine che piace a Trump non piace a nessuno, nella grande comunità del cinema e dunque, per curioso contrappasso, la stretta protezionistica e conservatrice messa in atto dalla Casa Bianca potrebbe far risplendere di nuova luce il lavoro di Rosi, orientato com’è evidente in direzione ostinata e contraria. Che ne pensa, il regista? «Potrebbe anche essere, ma al punto in cui siamo non faccio ipotesi. Comunque vada, domenica prossima, io ho già vinto. So di aver fatto un film politico a prescindere, quando ho cominciato a girare nessuno parlava di migranti in questi termini e alle proiezioni di New York e di Toronto non è stato sollevato nessun caso. Oggi è diverso, è come se il film si fosse adattato al clima politico che il Paese sta respirando».

I numeri snocciolati dall’ad di Rai Cinema Paolo Del Brocco e dalla produttrice Donatella Palermo confermano: «Fuocoammare» è stato venduto in 64 Paesi e presentato in 50 festival internazionali, dovunque ha fatto e fa il tutto esaurito. «All’inizio mi sono fatto guidare dall’istinto e solo per affinità con il mio modo di sentire ho raccontato le storie del dottor Bartòlo e del piccolo Samuele. Ora mi rendo conto che quelle storie, quei personaggi, hanno dentro qualcosa di profondo e di universale che li ha trasformati in archetipi contemporanei, capaci di parlare al cuore dei giapponesi come dei brasiliani, degli ungheresi e dei messicani. Me lo sono chiesto tante volte, ancora me lo chiedo: quali corde nascoste dell’animo umano toccano comportamenti che ai nostri occhi appaiono del tutto naturali? È come se Lampedusa fosse diventata un luogo della mente in grado di rompere ogni confine. E i morti annegati nel Mediterraneo sono fratelli dei morti disseminati nel deserto californiano».

Dice di non avere più parole da spendere, Gianfranco Rosi, ma le parole tracimano come un fiume in piena quando comincia a raccontare di Lampedusa e della straordinaria avventura artistica e umana che da una piattaforma di roccia gettata in mezzo al Mediterraneo lo ha spinto fino a Los Angeles, sul tetto del mondo del cinema. Ieri sera, alla vigilia di una Notte delle stelle che si annuncia incandescente per la portata dei temi sul tappeto, ha ricevuto il «Master of Documentary Award» del festival «Los Angeles, Italia» organizzato da Pascal Vicedomini in una serata spumeggiante per star ed eventi: quasi un simbolico e benaugurante passaggio di testimone dal Teatro Cinese al Dolby Theatre, la sala dove di lì a poco si assegneranno gli Oscar. E con lui sono stati premiati Dev Patel, candidato per l’interpretazione in «Lion»; Sting, alla sua quarta nomination, con J. Ralph, per la canzone «The empty chair» dal documentario «Jim: The James Foley Story»; Giorgio Gregorini e Alessandro Bertolazzi, gli altri due italiani in lizza per il trucco di «Suicide squad»; i veterani Paul Haggis e David Belle, festeggiati con un Humanitarian Award per il lavoro solidale realizzato ad Haiti dalla loro associazione no-profit Artists for Peace and Justice; e Maria Bello, protagonista del film di chiusura «In Search of Fellini». Un galà dedicato alle eccellenze italiane e americane che ha coronato una settimana di anteprime e show ad alto tasso di glamour nel segno dello scambio tra culture ed esperienze artistiche.

L’idea di costruire un ponte tra culture e vite diverse è di forte suggestione anche per Pietro Bartòlo, il medico di frontiera che ha dolcemente «imposto» a Gianfranco Rosi di girare «Fuocoammare», passandogli una chiavetta Ubs con le immagini agghiaccianti dei migranti accalcati nelle stive de barconi trasformate dai mercanti di morte in camere a gas. Per mesi sono stati compagni di set, ora sono uniti come vecchi amici. «Il mio Aladino», così il medico chiama il regista: «Ho strofinato la lampada ed è uscito lui, il genio che mi dato l’opportunità di raccontare al mondo la mia verità. È importante essere in America in questo momento, importante aver acceso un faro su un fenomeno che molti chiamano problema e invece è una grande opportunità di conoscenza. L’ignoranza genera razzismo, ma in giro c’è ancora tanta gente buona capace di capire e di accogliere. Da noi parlano di invasione epocale, in realtà l’invasione ce l’ha Salvini, nel cervello». La verità contro le «fake news», la post-verità. Bartòlo va diritto al cuore della questione e ancora non sa di essere in buona compagnia, dalla stessa parte di un colosso come il «New York Times», che proprio durante l’Oscar ha deciso di mandare in onda uno spot in difesa del giornalismo indipendente dagli attacchi di Trump. Ai migranti di Lampedusa Rosi racconta di aver chiesto sempre la stessa cosa: cosa vi spinge ad andare per mare? «”La speranza di salvarci, forse”. Per quel “forse” sono disposti ad affrontare sofferenze indicibili. Avevamo il dovere di mostrarlo. E ora siamo qui, sotto gli occhi del mondo. Ecco perché abbiamo già vinto. E domenica sera, se andrà diversamente, nessuno parli di delusione». 
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