Il magic moment di D'Amore
«Aspettando Gomorra porto Mamet a Napoli»

Il magic moment di D'Amore «Aspettando Gomorra porto Mamet a Napoli»
Lunedì 22 Agosto 2016, 14:11 - Ultimo agg. 14:12
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«La prima volta che mia mamma mi ha visto nei panni di Ciro, continuava a fissare la tv e poi me, me e poi la tv. È la normalità della mia famiglia. È mia madre che pensa: ma come fai a fare cose così terribili, che fanno ribrezzo, quando a casa sei un fesso e se serve te le do ancora?». Lo dice con la calata napoletana mentre ride Marco D'Amore, classe 1981, cresciuto in scena a suon di Shakespeare e Goldoni, ma per i milioni di fans di «Gomorra» ormai indissolubilmente Ciro L'immortale, il pupillo del boss Pietro Savastano, capace di ogni più turpe delitto, nella serie Sky tratta dal romanzo di Roberto Saviano. Ma nella vita D'Amore, classe 1981, nato a Caserta e nipote d'arte, ha tutta l'affabilità della sua terra.

E proprio mentre «Gomorra» sbarca in America, e diventa un un cult, acclamato dai media statunitensi, per lui si prepara un autunno di fuoco, tra cinema, teatro e tv. «Sa come diceva Eduardo? La cosa più importante per un attore è 'a salute», ricorda all'Ansa recitando una delle più celebri battute di De Filippo. A novembre si torna infatti sul set per la terza stagione di «Gomorra», la prima che non sarà diretta da Stefano Sollima. Negli stessi giorni «dovrebbe uscire in sala “Brutti e cattivi”», film opera prima di Cosimo Gomez, interpretata insieme a Claudio Santamaria, su una banda di disabili che organizza una rapina. «Una commedia nera, mai vista in Italia, in cui mi vedrete in modo molto diverso», promette D'Amore.

Ma soprattutto, il 28 settembre debutterà in prima nazionale al Piccolo Eliseo di Roma con «American Buffalo», testo tra le prime prove giovanili del Premio Pulitzer David Mamet (ultima parte della trilogia voluta da Luca Barbareschi, che vede in scena contemporaneamente all'Eliseo anche «Glengarry Glen Ross»), negli anni interpretato da Al Pacino e, al cinema da Dustin Hoffman, che ora D'amore dirige e interpreta insieme a Tonino Taiuti e Vincenzo Nemolato. Facendo parlare Mamet in napoletano. «Se si conosce il testo non è strano - spiega - Mamet spesso parla del sound che viene dalla strada. Usa un linguaggio greve, basso, che conosco bene. Mi sono detto: “Se lo fai in italiano viene fuori un compitino gentile, educato”. Invece qui serve che il suono venga fuori dalla pancia». E così, con l'adattamento di Maurizio De Giovanni, la storia si sposta dalla periferia americana alle puteche, le botteghe dei vicoli partenopei.

Don diventa un napoletano con il mito americano, negli abiti che porta, nei cimeli che appende alle pareti. E anche in quella moneta, l'American Buffalo, un vecchio mezzo dollaro che forse vale una fortuna, forse no, che progetta di rubare insieme a due altri balordi. «È l'apologia del fallimento e del crollo del mito a stelle e strisce - prosegue D'Amore - È proprio Mamet a distruggere lo Zio Tom. Sono felice di portarlo in scena mentre tutti sono concentrati sulla divinizzazione della vittoria, è indice di sanità. Rappresentiamo gli sconfitti: tre miserabili che si aggrappano a un mito perché non hanno nient'altro nella vita».

Ma cos'hanno in comune Mamet e Gomorra, Goldoni o un film di impegno civile come «Un posto sicuro», il film di Francesco Ghiaccio sulla vicenda dell'Eternit? «Quando scelgo un copione - risponde l'attore - Seguo due fattori per me imprescindibili. Le persone con cui lavoro, da Servillo a Zingaretti, Bentivoglio, Colangeli, sono tutti attori e registi molto avanti rispetto a me, che mi costringono a correre e rincorrerli. E poi le tematiche, la critica sociale, che è presente in Gomorra come in Amleto. Mi interessano storie che suggeriscono domande». Niente mito americano dunque per D'Amore? «Forse sono l'unico attore in Europa che non sogna l'America - dice - Non mi presterei mai a fare il pupazzo con una sola battuta pur di comparire in un loro film. I miei miti sono nel cinema europeo, che ha a cuore problematiche e conflitti ben diversi. Io - aggiunge - faccio i conti con la mia misura. Se un film o una serie hanno eco anche all'estero, ben venga. Ma non ho chissà quali velleità di successo, consapevole che chi è venuto prima di me ha già detto o fatto tutto. Mi piace lavorare nel mio paese. Io voglio stare qui».
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