“La botta grossa”, il terremoto
nel docufilm di ​Sandro Baldoni

“La botta grossa”, il terremoto nel docufilm di Sandro Baldoni
di Ciro Manzolillo
Martedì 20 Marzo 2018, 19:53 - Ultimo agg. 22 Marzo, 12:00
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«Questa è la mia casa, quello che resta della mia casa, a Campi di Norcia, quattro buchi, una libreria, macerie. Sono riuscito ad entrare, non è un bel spettacolo, ti spacca il cervello...». Sandro Baldoni si autofilma e dalle sue dolorose parole parte per raccontare nell’ultimo suo docufilm, “La botta grossa”, il terremoto del 30 ottobre del 2016 che colpì i territori tra Norcia e Camerino. Fu la più forte scossa registrata in Italia negli ultimi quarant’anni, non fece morti ma distrusse tutto, i paesi di quella fascia appenninica divennero cumuli di macerie. Quarantamila furono gli sfollati.

Sandro Baldoni (fratello di Enzo, il giornalista rapito ed ucciso in Iraq nel 2004) presenta storie dal di dentro, di uomini e donne, di bambini ed anziani che si sono improvvisamente trovati con l’esistenza rovesciata, perdendo casa, lavoro ed ogni genere di cose, smarrendo il passato e non riuscendo ad immaginare come potrebbe essere per loro il futuro. Un terremotato è un sopravvissuto - sentenzia la voce fuori campo del regista - un sospeso che non sa cosa fare, altri saranno a decidere per lui.

“La botta grossa” è un transito nel dolore, nelle ferite psicologiche ma, ciononostante, le testimonianze della gente si adagiano su una sponda dell’ottimismo. Ed allora ecco gli abitanti di Campi che subito dopo il moto della terra si sono organizzati in una nuova microcomunità intorno all’ampia struttura che ospita la locale Pro loco. Da Campi Baldoni sposta lo sguardo sugli abitanti di Visso e Ussita, nel maceratese, da dove per un rischio idrogeologico imminente sono stati costretti al trasferimento in località di mare. Qui i terremotati raccontano di come sono stati accolti con generosità dalla gente posto: c’è la signora polacca che ha dovuto subire col terremoto una seconda emigrazione, il pasticciere che rimpiange il suo laboratorio di dolci andato distrutto, la camionista rimasta scioccata dalla paura, l’allevatrice che, pur di non chiudere la sua azienda dove recupera una razza caprina autoctona, si sobbarca ogni giorno oltre 250 chilometri di auto.

Dal mare la piccola troupe di Baldoni ritorna di nuovo in altura, all’eremo di San Fiorenzo, nel comune di Preci. Ad attenderla c’è Tadeusz, un frate senza ordine giunto qui una ventina di anni fa dalla Polonia, grazie al suo lavoro che questo antico luogo sacro ad oltre mille metri dal livello del mare è ritornato alla sua semplice bellezza. Il religioso naturalmente, ha vissuto in solitudine il terremoto nel quale , nonostante gli effetti distruttivi che può procurare «bisogna vederci qualcosa di buono - dice il frate - perché Dio parla agli uomini anche così. Il terremoto non uccide, sono le case che vengono giù ad uccidere, perché fatte male dagli uomini». Baldoni chiude il cerchio del suo viaggio ritornando a filmare la sua casa di Campi e, mentre vengono inquadrati i pochi oggetti recuperati dalle macerie, nello spettatore risuona la voce di Ungaretti precedentemente ascoltata e che scandisce i versi laceranti di “San Martino del Carso”: «Di queste case/non è rimasto/che qualche brandello di muro/di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto/neppure tanto/. Ma nel cuore nessuna croce manca/e il mio cuore che è straziato».

Vincitore del David di Donatello per la sezione documentari, “La botta grossa” è un film magmatico, di accostamento, di suoni, di voci, è la ricerca di strappare a persone che hanno vissuto un dramma la geografia del loro stato d’animo, è il racconto di come, nonostante le ferite che un terremoto può aprire, gli uomini possono rimanere integri, non smarrendo i loro beni più grandi: dignità e pudore.
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