Le paranze di Santoro:
«Gomorra semplifica, la realtà è il mio Robinù»

Le paranze di Santoro: «Gomorra semplifica, la realtà è il mio Robinù»
di Titta Fiore
Giovedì 8 Settembre 2016, 08:29 - Ultimo agg. 10:17
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«Femmene, potere, soldi. Questa è la malavita». Dietro le sbarre del carcere di Airola, a Poggioreale, la realtà di fuori non si scolora nell’impatto con le asprezze del quotidiano. La realtà di fuori, per i guaglioni delle «paranze», continua ad essere la sola normalità conosciuta.


La galera, solo un intervallo tra il prima e il poi, «una serie di calendari» come dice sprezzante uno di loro, «e quanto tempo ci vuole a fare passare un calendario? Niente».
Niente. La scuola vale niente, la vita vale niente per i baby boss di Scampia e del centro storico, per i ragazzi neppure ventenni che hanno cambiato la geografia criminale di Napoli. «Per morire bastano tre secondi, io uccido te o tu uccidi me, è normale» dice quello più deciso del gruppo alle telecamere di «Robinù», il potente documentario che Michele Santoro ha mostrato ieri alla Mostra del cinema di Venezia e in autunno farà uscire nelle sale portando per la prima volta sullo schermo «la storia di un intero popolo ridotto a carne da macello». Il racconto della faida che negli ultimi due anni ha visto combattersi a Napoli bande di adolescenti armati di kalashnikov per il controllo del territorio e del più grande mercato di spaccio d’Europa, fatto dalla viva voce dei protagonisti. A volte dietro le sbarre, a volte nel dedalo di vicoli diroccati del centro, a volte nei bassi eduardiani dove non entra mai il sole e dove crescono, piccoli ostaggi di un destino infame, i figli delle spacciatrici agli arresti domiciliari. 

«Eravamo partiti dal racconto delle paranze nate dallo sgretolamento delle vecchie famiglie camorriste e ci siamo trovati di fronte a una lezione pasoliniana» dice Santoro, qui all’esordio nella regia, ma sempre con lo stile e il linguaggio dell’inchiesta che non sfigurerebbe in una prima serata televisiva da servizio pubblico. «La rivolta dei ragazzi contro la centralità dei vecchi boss, la forza delle immagini che ha reso superfluo il commento: da questo abbiamo ricomposto la concezione del mondo di bambini soldato che imparano a sparare a quindici anni, a venti sono già killer professionisti e non sempre arrivano ai trenta». 
Una grande realtà dimenticata, la definisce il giornalista, pronto a tornare su Raidue dal 5 ottobre, e proprio da Napoli, ma è di ieri l’ennesima «stesa» di un gruppo di fuoco in pieno centro cittadino, calato dai budelli dei Quartieri Spagnoli, e di pochi giorni fa la notizia della partecipazione di un bambino di otto anni nella baby gang che ha pestato a sangue un ucraino. Le pagine di cronaca ne sono piene. «Certo, ma la vera questione è un’altra e riguarda l’importanza del welfare criminale che si regge sui proventi del traffico di droga e ci permette di non occuparci di loro. Di fingere che non esistano. Si impegnano anche uomini e mezzi per combattere questo fenomeno malavitoso, ma manca un grande piano di risanamento sociale e urbanistico. Ecco la vera ipocrisia dei nostri tempi.