Sorrentino, quando ha iniziato a pensare di raccontare la storia di un Papa anomalo come Lenny Belardo?
«Era un’idea che avevo da moltissimo tempo e che, stupidamente, mi ero autocensurato pensando con superficialità che nessuno in Italia mi avrebbe permesso di fare un film del genere. Come si è visto mi sbagliavo».
Allora, quando Moretti ha girato «Habemus Papam» ha temuto di aver perso l’occasione di girare questa idea?
«Moretti per me è un maestro e adoro ogni suo film. Detto questo, quando ho visto “Habemus Papam” ho tirato un sospiro di sollievo perché lui si ferma un attimo prima, rispetto a dove comincia la mia narrazione. Il suo protagonista, infatti, non vuole essere Papa, mentre Lenny è fortemente determinato a diventarlo e ridisegnare il volto della Chiesa».
Dalle due puntate viste, sembra che lei, piuttosto che adeguarsi ai canoni narrativi delle serie tv, abbia scelto di girare tanti piccoli film, o meglio, un film diviso in dieci parti. È così?
«Mi piacerebbe assumermi un simile merito, ma in realtà le migliori serie tv hanno già superato quei “limiti”. Sono “cinematografiche”, ricche di riferimenti letterari e permettono la narrazione di ampio respiro che ho sempre sognato. Basti pensare a serie come “True Detective” e “Fargo”, per capire che la strada era già aperta».
Nella chiesa di oggi Papa Francesco indica una via opposta a quella propugnata dal suo Pio XIII. Non teme di apparire nostalgico di un papato più antico?
«No, non sono un nostalgico. C’è solo un ragionamento: Papa Francesco ha prodotto un’accelerazione verso una Chiesa “vicina a tutti”. Ma nella Chiesa esiste anche un’idea opposta, che dal medioevo arriva fino ad oggi. La scelta di “rendersi distanti”, per suscitare la fascinazione dei fedeli. Parlando con studiosi di cose vaticane, che ne capiscono molto più di me, mi hanno detto che non era implausibile che, a fronte dell’accelerazione di Papa Francesco, si possa poi verificare un fenomeno opposto. In entrambi i casi la motivazione è sempre la stessa: aumentare il numero dei fedeli, questo è l’imperativo categorico in Vaticano».
Jude Law ha dichiarato che interpretare Lenny lo ha portato a riconsiderare il suo rapporto con la fede. È stato lo stesso anche per lei?
«Fortunatamente no. Del resto io ho fatto le scuole dai preti, non è che fossi a digiuno del tema. A me interessava raccontare l’aspetto più personale degli ecclesiastici, che sono comunque uomini. Sulla mia consapevolezza non saprei, tant’è che sto scrivendo una seconda stagione per cercare di capirne qualcosa di più».
Comunque, aldilà della fede, i suoi film analizzano sempre il potere nelle sue varie forme. Non trova?
«Ho indagato il potere, la cui conseguenza è la solitudine.
Mi affascinano i rapporti di forza tra le persone e mi interessano gli “asociali”, tutti coloro che si isolano e fanno fatica ad entrare in società anche quando sono protagonisti della politica, come Andreotti nel “Divo”. Del resto la solitudine è un sentimento che ci accompagna tutti costantemente, anche se avessimo dieci figli: è la percezione di non riuscire a comunicare».