Dylan ricanta Sinatra e continua a sabotare il proprio mito

Bob Dylan
Bob Dylan
di Federico Vacalebre
Sabato 14 Maggio 2016, 15:20 - Ultimo agg. 16:49
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Al primo disco, al primo esperimento poteva anche essere una delle tante «extravaganze» che sua Bobbità si concede ogni tanto, interrompendo il suo «neverending tour». Ma al secondo album interamente dedicato al canzoniere di Sinatra da Bob Dylan il gioco si fa dannatamente serio, anche se mai esplicito, mai confessato: nel nuovo «Fallen angels», persino più che in «Shadows in the night», uscito ad inizio 2015, l’uomo che mise l’arte in un juke box, il mister tamburino delle risposte che soffiavano nel vento, il menestrello della rivoluzione prossima ventura, il folksinger che tradì la causa nel nome del suono elettrico, il più grande rocker-poeta di tutti i tempi, diventa un crooner a tutti gli effetti, un fine dicitore che cesella ogni parola con più rispetto di quanto abbia mai dimostrato per i suoi, di versi, ben più pensati e «importanti».
Come il suo predecessore, il trentasettesimo titolo della discografia dell’uomo di Duluth, 75 anni da compiere il 24 maggio, è stato registrato nello Studio B della Capitol dove già furono incisi tanti hit sinatriani degli anni Cinquanta. Sotto le mentite spoglie di Jack Frost, Dylan produce se stesso e si avvolge in un sound romantico, sognante, lontano dallo scintillante lavoro di grandi arrangiatori come Nelson Riddle. È un controllato interprete del great american songbook, un suonatore stanco che ha ancora fiato per inseguire le love story firmate da Johnny Mercer, Harold Arlen, Sammy Cahn, Jimmy Van Heusen, Carolyn Leigh.
Una languida pedal steel guitar apre le danze nell’incipit di «Young at heart» e i dylaniani dylaniati avranno di che riflettere confrontandone il testo, e soprattutto lo spirito, con quello di «Forever young». «My way» e «Strangers in the night» sono ancora evitate, troppo pesanti nell’immaginario collettivo, troppo sinatriane per dylanizzarle anche solo un pochetto. Ma stavolta qualche superevergreen legato alla Voce leggera e suprema, al soffio baritonale più famoso di tutti i tempi, ci scappa: «All the way»; «All or nothin’ at all» che fu la prima canzone registrata da Ol’ Blue Eyes nella sua carriera (correva l’anno 1939); «That old black magic», che Frankie trasformò in «That old Jack magic» al galà prima dell’insediamento di JFK come trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti; «Come rain or come shine», a suo tempo cesellata con gli archi di Don Costa e tanti anni dopo duettata con Gloria Estefan. Il resto lo fanno melodie sempre memorabili come quelle di «Maybe you’ll be there», «Polka dots and moonbeams, «Nevertheless», «On a little street in Singapore», «It had to be you», «Melancholy mood», titolo che quasi sintetizza lo spleen dell’intera opera, più «Skylark», però estranea al canzoniere del crooner di Hoboken.
«Shadows in the night» per qualcuno era stata «la migliore performance vocale di Dylan da 25 anni a questa parte... spettrale, dolceamara, affascinante e toccante» (Neil McCormick, «The Daily Telegraph») e «Fallen angels» potrebbe confermare l’impressione, sconvolgendo il parametro di riferimento con cui, dal 1962 il mondo si confronta con l’opera somma di Dylan: da allora e finora non contava come cantava, ma che cosa, le sue parole erano versi-pietra che rotolano, e con la svolta elettrica divennero fiume che portava nel mare acqua e fanghi, sogni e bisogni, poesia e prosa, amore e sesso, rivolta e delusione, pubblico e privato, esplosioni ed implosioni.
Qui è tutto soffice, ovattato, il timbro morbido di mister Zimmerman sa che la consolazione come la redenzione è impossibile, eppure continua a dirci di pene d’amore, di ossessioni mitologiche per donne d’altri tempi. Come Rimbaud mercante d’armi e di schiavi rinnega se stesso per ritrovarsi chissà dove. «Like a rolling stone», appunto, rotola nel mondo della musica che esisteva prima che lui la cambiasse per sempre, ritrova il vecchio Frank e sembra dirgli - con il tono sarcastico di un «talkin’» degli esordi - «Sai, avevi ragione tu, non bisogna cambiare niente perché tutto cambi davvero. E, poi, come sempre smentendosi: «Non è vero, e non ci credo, ma non potevo fare niente di più antidylaniano che cantare il tuo repertorio, che affrontare The Voice con i rospi in gola della mia non-voce».
Il gigante Sinatra illumina di nuovo il più che gigante Dylan, che ha già vinto il Pulitzer e l’Oscar e sarebbe un paradosso se finisse per vincere il Nobel per la letteratura proprio negli anni in cui ha messo via la penna per impugnare il microfono e giocare a fare il bravo cantante.
Ps. Ma tutto questo Raffaella Carrà non lo sa: a «The Voice» - poi dici le coincidenze - ha appena celebrato i 35 anni dalla morte di Dylan, confondendolo con un altro superBob, Marley.
 

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