Gino Paoli: «Quanto ho imparato dai poeti di Napoli»

Gino Paoli: «Quanto ho imparato dai poeti di Napoli»
di Andrea Spinelli
Venerdì 31 Luglio 2015, 08:45 - Ultimo agg. 08:57
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Gino Paoli dice che malinconia è la tensione del vivere. Ma la rabbia di questi mesi ha poco a che vedere con gli umori in chiaroscuro di un animo inquieto. La rabbia e l’amarezza riguardano soprattutto l’accusa di evasione fiscale, e solo sul palco l’uomo di «Senza fine» pare ritrovare la pacificazione delle sue gatte e dei suoi soffitti viola grazie a serate come quella che stasera lo porta, con Danilo Rea, sotto i riflettori del Premio Charlot (che gli ha appena assegnato il riconoscimento alla carriera), all’Arena del mare di Salerno, e il 12 settembre al Nettuno Lounge Beach di Torre Annunziata. Sull’argomento fisco l’umore è ancora quello del «se qualcuno ci scherza sopra, lo mando all’ospedale», così meglio bordeggiare (prudentemente) altri lidi.



A 91 anni Charles Aznavour dice di pensare prima all’uliveto della sua tenuta vicino a Marsiglia e poi alla musica. Visto che pure lei produce olio, a 80 anni quali sono le sue priorità?

«Io non ho nessuna priorità in particolare: mi occupo di tutto quello che mi riguarda, cercando di fare bene tutto. Certamente per me l’olio rappresenta un’eredità importante: lo faceva il mio bisnonno, mio nonno dopo di lui, poi mio padre... E adesso lo faccio io. Per me è anche un modo per mantenere viva la memoria di mio nonno che è una persona a cui ho voluto molto bene. Poi per il resto, si può fare l’olio, ma al contempo tante altre cose: scrivere canzoni, fare il padre».



Dal 21 settembre al 4 novembre il suo amico Farinetti organizza presso Eatitaly-Roma la mostra «Una lunga storia d’autore-Gli ottant’anni di Gino Paoli». Lei ha contribuito attivamente all’iniziativa o no?

«Questa iniziativa è nata grazie a un gruppo di miei fan, o per essere più precisi di miei ”seguaci”, nel senso che seguono quello che faccio. Mi hanno sottoposto l’idea e chiesto il mio parere, io ne sono stato molto felice. Ma il lavoro è stato tutto loro».



E i quattro amici al bar sono tutti scomparsi o qualcuno è rimasto. Se sì, chi?

«I quattro amici non sono identificabili come persone. Sono quattro che cercano di cambiare il mondo... A mano a mano diventano sempre meno, ma poi per fortuna arrivano nuove persone con la stessa intenzione. Questa canzone, più o meno, è la storia della gioventù, e della gioventù che passa. Parla di integrazione, del dimenticarsi le speranze, delle utopie... Prima arriva una donna, poi il lavoro, e così via... E finisce che uno ha sempre meno tempo per pensare a cambiare il mondo, perché è preso dai suoi problemi. Poi però arriva una nuova generazione pronta a cambiare ciò che non va, con le sue idee e le sue speranze. Ad ogni modo, sono convinto che si possa cambiare il mondo anche nel proprio piccolo, partendo dalla cerchia delle persone con cui vivi: è chiaro che se ti comporti come pensi che dovrebbe essere il mondo, fai una piccola parte di quello che tutti dovrebbero fare».



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