Giovanni Block, la canzone non è uno «Spot»

Giovanni Block, la canzone non è uno «Spot»
di Federico Vacalebre
Martedì 14 Giugno 2016, 20:07
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Si intitola «S.P.O.T.» dalle iniziali di «Senza perdere o tiempo» il secondo album di Giovanni Block, da ormai un decennio nel novero dei più interessanti cantautori newpolitani. Rispetto all'esordio di «Un posto ideale» 2011, Targa Tenco, cambia il suono e la lingua, cambiano i panorami evocati, non la certezza che il ragazzo abbia cose importanti da dire, anzi da cantare, e anche l'impressione che stia ancora cercando lo stile espressivo adatto, forse il produttore musicale capace di dare miglior forma alle sue intuizioni.La scelta del dialetto non è casuale, e non potrebbe esserlo nel bel mezzo dell'esplosione di una nuova leva cantautorale verace, che peraltro Block, dopo aver riunito nella rassegna «Be quiet», riunisce nel disco, appena pubblicato dalla Polosud, radunando intorno a se Alessio Arena, Flo, Francesco Di Bella, oltre ai Moda Loda Broda, Batà Ngoma e, per un recitativo, Gianfelice Imparato. E ancor meno potrebbe esserlo all'indomani della scomparsa di Pino Daniele, del vuoto impossibile da colmare da lui lasciare, della riflessione collettiva sulla sua lezione, a cui guarda decisamente un brano come «Adda venì baffone!».

Ma Giovanni ha ben altre frecce al suo attivo, dall'ironia autobiografica di «Dint'all'underground», sorta di voce di dentro di una generazione sonica verace che deve fare i conti con fenomeni tipo Calcutta, alla malia tenerissima di «E va ferni' semp' accussì», delicata come una ninna nanna post-muroliana cullata da violoncello di Arcangelo Michele Caso: anche sul fronte strumentale il cd raduna il meglio della scena partenopea, da Mariano Bellopede a Luigi Scialdone. «Senza ridere niente», in duetto con Di Bella, è un'occasione sprecata dall'arrangiamento anni Sessanta, «Storia di un antico tradimento» racconta con tono da cantastorie la drammatica vicenda di Carlo Gesualdo da Venosa e Maria d'Avalos. «Core mio» è una madeleine proustiana divisa con Flo, una melanconica ballata dell'amore crocifisso, mentre «Sule» trova sponda nel vocione di Ciro Tuzzi, prima che una rilettura di «Palomma e notte» chiuda - per ora - il cerchio, facendo sfoggio con orgoglio delle proprie radici canore.Come Gnut, come Sansone dei Foja, come i ragazzi della paranza del Capitone di Daniele Sepe, come il migliore della nidiata Arena, Block ha un talento feroce, ancora da valorizzare come meriterebbe. Intanto canta un disagio insieme intimissimo e generazionale, appoggia la sua voce su chitarre, acustiche o elettriche, che potrebbero benissimo fare a meno dell'ukulele di moda o del ritornello in stile Manu Chao. Ma in tempi così omologati e difficili l'incipit di «'O mare va truvann' e forte» è uno sparo nella notte, un'emozionante chanson da camera con vista su Procida
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