I Wiener prenotano Muti
per il prossimo Capodanno

I Wiener prenotano Muti per il prossimo Capodanno
di Stefano Valanzuolo
Lunedì 2 Gennaio 2017, 08:42
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Neanche il tempo di cominciare il 2017 e già si parla del 2018. È di ieri, infatti, la notizia che il prossimo Concerto di Capodanno da Vienna sarà diretto da Riccardo Muti: sarà la quinta volta al Musikverein di Muti, che così si accinge ad eguagliare Mehta nella classifica delle presenze, preceduto solo da Maazel (undici), Krauss (tredici) e dall'irraggiungibile Boskovsky (venticinque!). La scelta, ha fatto sapere il portavoce dei Wiener, vuole ribadire il legame forte che esiste tra il direttore italiano e l'orchestra viennese, testimoniato da oltre cinquecento performance insieme.

Grazie a questo annuncio, Muti quasi ruba la scena, senza volerlo, a Gustavo Dudamel, ieri al debutto sul podio del Neujahrskonzert. Il trentacinquenne musicista venezuelano, però, si consola acquisendo il primato di più giovane direttore nella storia del Capodanno: ha superato Josef Krips, quarantaquattro anni nel 1946, volto pulito dell'Austria postnazista.

Dudamel entra in scena, nel Musikverein tirato a lucido, gremito (millesettecento a sedere, trecento in piedi) e pieno di fiori (non più quelli di Sanremo), con un sorriso ampio che non smetterà mai nel corso della matinée. Il Concerto di Capodanno rappresenta per lui l'ulteriore e definitiva consacrazione nell'olimpo del podio. Chi viene scelto per dirigere questo evento mondiale (novanta paesi collegati in tv, cinquanta e passa milioni di spettatori, oltre alla radio) non è per forza il più bravo di tutti, ma deve avere carisma. E Dudamel prodotto felice di quel miracolo musicale chiamato «El Sistema» (quando ci si ricorderà di Abreu per il Nobel?), direttore della Los Angeles Philharmonic Orchestra, il carisma se lo va costruendo da vent'anni, avendo cominciato dalle favelas per ritrovarsi alla Scala. Intorno alla leggerezza e al sorriso si snoda l'appuntamento musicale di Vienna, dedicato ai suadenti ritmi di danza dell'impero che fu. Non si esce dalla tradizione e, in fondo, va bene così; in scaletta ci sono sì i «soliti» autori (Johann, padre e figlio, e Josef Strauss, quindi Nicolai, von Suppé e Lehár, al quale è riservato l'onore del brano d'apertura), ma non per forza i «soliti» brani. Per esempio, «Winterlust» è una polka di sorprendente vivacità; e «Mephistos Höllenruf» un valzer avvolgente. Nel capitolo «inossidabili» trova spazio «An der schönen blauen Donau», primo bis d'ordinanza in cui ogni direttore - salvo notevoli eccezioni - si limita ad assecondare il cliché rassicurante tramandato da sempre. Più interessante, allora, il valzer dall'operetta «Der Schatzmeister» di Ziehrer, e non soltanto per le coreografie di Renato Zanella, danzate nel castello dei sogni di Sissi. Dudamel, superata una certa soggezione iniziale, sfodera una discreta verve musicale, qualche volta cerca l'effetto (ma non è gran male), infine ha il pregio di lasciar fare ai Wiener Philharmoniker che, come diciamo da sempre, saprebbero cavarsela anche da soli ed egregiamente. Il loro suono ha una bellezza straordinaria, e l'orgoglioso amore verso la tradizione è, forse, il vero valore aggiunto. Il ritmo impartito dal podio, comunque, resta sostenuto, gli attacchi puntuali, il clima giusto. Il successo finale diventa una conseguenza ovvia.

Il concerto della Fenice, a Venezia, nonostante i coriandoli e lo champagne che fiotta da casa Valery, luccica un po' meno di quello viennese, ma la musica si lascia ascoltare con indiscutibile piacere. Di Fabio Luisi, sul podio per l'occasione, va lodato il buon gusto con cui sceglie e rilegge le «Matinées musicales» di Britten, raffinato gioco di rielaborazione d'aprés Rossini che rivela tinte orchestrali stimolanti. Ma soprattutto la Settima di Beethoven (non trasmessa in diretta tv) appare degna di nota per la carica intelligente trasmessa all'orchestra della Fenice. I cori verdiani in programma sembrano il giusto pendant rispetto ai bis straussiani di Vienna, le coreografie dagli spazi dell'Arsenale sono suggestive e vagamente «West Side Story». I due solisti di canto meritano attenzione. Rosa Feola, soprano campano in confortante ascesa, dona garbo ed agilità a «Quel guardo il cavaliere» (Don Pasquale); John Osborn, Otello sancarliano di qualche settimana fa, profonde grazia e virtuosismo nell'aria «A mes amis» (La fille du regiment) e ostenta un fraseggio impeccabile in «Questa o quella». Il controllo dell'orchestra, da parte di Luisi, è encomiabile così che, tra qualche tratto enfatico, il concerto finisce in gloria. Come conviene ad un Capodanno.