Il sogno di Bruce Springsteen: «Voglio andare a Vico Equense, ci sono le mie radici»

Il sogno di Bruce Springsteen: «Voglio andare a Vico Equense, ci sono le mie radici»
di Andrea Spinelli
Martedì 18 Ottobre 2016, 12:07 - Ultimo agg. 15:43
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«Posso fare qualcosa per te? Ma stai scherzando? Hai già fatto tutto». Quel dialogo un po' surreale avuto anni fa da Bruce Springsteen col vate Bob Dylan sulle scale del Kennedy Center rievocato dal Boss nel messaggio di felicitazioni postato non appena avuta notizia del Nobel all'eroe di «The Times they are a-changin'» è tornato ieri pomeriggio a stuzzicare gli umori dell'uomo nato per correre durante l'incontro con cui ha voluto presentare a Londra la sua autobiografia, arrivata in libreria tre settimane fa ad insidiare addirittura lo strapotere di «Harry Potter e la maledizione dell'erede».

Un viaggio tra automobili, ragazze, sogni e disillusioni virate ocra come il ricordo del Palace, il luna park di Asbury Park oggi scomparso citato proprio in quella «Born to run» che dà titolo al volume, 528 pagine edite nei paesi inglesi da Simon & Schuster e in Italia da Mondadori. Il volume, arrivato nei negozi assieme all'ideale colonna sonora «Chapter and verse» in parte inedita e in parte no, era stato preceduto a primavera dalla pubblicazione di «Outlaw Pete», graphic novel destinata ai più piccoli, illustrata da Frank Caruso ispirandosi dall'omonima canzone del Boss attinta a sua volta da «Brave cowboy Hill», un libro per bambini del 1950.

«Dylan l'ho scoperto nel '65, ascoltando Like a rolling stone alla radio, e ho avuto modo d'incontrarlo nove anni dopo durante una tappa della Rolling Thunder Revue. Io avevo 25 anni, lui 35», ha ricordato Springsteen, 67 anni, durante l'incontro di ieri pomeriggio all'Institute of Contemporary Art di Londra per parlare con la stampa europea di questo suo debutto letterario inforcando di tanto in tanto un paio di occhialini che lo facevano somigliare tremendamente al personaggio di Joey il Becchino impersonato nella terza serie di «Lilyhammer» dell'amico Steven van Zandt, per leggerne personalmente alcuni passaggi. Felice per il Nobel al vate di Duluth, il rocker di Freehold prende serenamente le distanze da ogni illazione relativa pure ad una sua possibile candidatura: «Non scherziamo. Veniamo da mondi diversi e la mia scrittura non ha certo avuto sulle cose del mondo l'influenza che ha avuto la sua».

Perché un'autobiografia, ora?
«Ho iniziato a scrivere questo libro per i miei figli; volevo lasciargli un pezzo di storia della loro famiglia, poi mi sono divertito con la scrittura e ho pensato di pubblicare tutto».

La reazione è stata immediata.
«Penso che la gente sia curiosa di conoscere le storie vere su cui spesso poggia l'immaginario di una canzone».

Come le è venuta l'idea?
«È nata dalla specie di diario che ho scritto in rete dopo essermi esibito con la E-Street Band nell'intervallo della finale del Super Bowl a Tampa. Dopo il sacro terrore provato tre minuti prima di andare in scena, lo show era andato così bene che quel racconto è diventato una specie di sfogo».

Che cosa ha provato al momento della pubblicazione?
«È stato strano mettere la parola fine ad un lavoro di sette anni e non imbarcarmi in una tournée per presentarlo alla gente come avviene con i dischi».

I suo concerti di tre ore e mezzo hanno fatto storia.
«Agli inizi, nei bar, con i ragazzi della E-Street Band suonavamo anche cinque ore, tirandola quindi molto più lunga di quanto accade oggi».

Le maratone sono un bell'antidoto a quella depressione di cui ha iniziato a soffrire attorno ai sessant'anni.
«Già, suonare tanto mi lascia svuotato e questo allevia il malessere. Può sembrare paradossale, ma per essere depressi ci vogliono delle energie. E poi mi sento ancora il fisico di quando avevo quarant'anni, quindi non vedo motivo per smetterla con i concerti».

Che cosa vorrebbe raccontare nella prossima autobiografia?
«Non credo che ne arriverà mai un'altra. Certi libri sono come i dischi: nel primo metti venticinque anni di esperienza nei successivi solo gli ultimi sei mesi. Mi piace molto, però, il percorso creativo».

Quali sono le sue letture?
«Jim Thompson, John Cheever, Philip Roth. Pure Moby Dick di Melville non è poi così noioso. Ma anni fa ho avuto anch'io il mio periodo russo, a cominciare da Dostoevskij».

Donald Trump alla Casa Bianca le fa paura?
«Penso che la sua elezione sarebbe qualcosa di terribile, capace di mettere in crisi addirittura il nostro sistema democratico».

Le è cara la sua parte italiana?
«Amo le mie radici e sogno di andare un giorno a Vico Equense dove c'è ancora la casa di famiglia di mia madre Adele. Mi spiace solo di non essere ancora riuscito nell'intento neppure quando ho suonato a Napoli in piazza del Plebiscito».




 

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