Caruso dovrebbe trovare casa a Napoli, è quello il luogo ideale», dice Mancusi, madre di Gragnano, papà di Sarno, una vita negli States dove ha lavorato come piccolo imprenditore nell’edilizia. E sempre con la passione di Caruso nel cuore. «Mio padre Evaristo ascoltava i suoi dischi, sono cresciuto nel culto di don Enrico, per noi italiani d’America resta un mito, è inconcepibile che proprio Napoli e l’Italia tengano in così scarso conto la sua memoria», insiste l’appassionato cultore che almeno due volte la settimana riceve le visite dei fan carusiani, mostra i cimeli più preziosi, predispone ascolti e filmati.
Tanti americani ma anche giapponesi, coreani, sudamericani arrivano in questo angolo di Brooklyn a mezz’ora di treno dal centro di Manhattan. Nel Museo ci sono anche due cravatte di Caruso, una pipa, le sue sigarette, un bastone da passeggio, il frac che usava in concerto, diversi costumi di scena, forchetta e coltello d’argento provenienti dall’appartamento dove il tenore viveva al Knickerbocker Hotel di Times Square, lo stesso dove nel ‘18 festeggiò il matrimonio con l’americana Dorothy Benjamin e dove nacque la loro figlia, Gloria. E il figlio di Gloria, Eric Murray, è stato spesso all’Enrico Caruso Museum of America.
«È venuto anche nel 2012, quando abbiamo celebrato i venticinque anni dall’istituzione del Museo con un concerto di Marcello Giordani, e torna di frequente. Ha fatto molte donazioni importanti, ci tiene tanto a conservare alto il nome del grande nonno», racconta Mancusi mostrando alcune chicche della sua collezione. Ecco una lettera autografa di Puccini a Caruso in cui il celebre compositore annuncia di aver scritto per lui «La Fanciulla del West», il calco in gesso della maschera mortuaria realizzata dallo scultore Filippo Cifariello nella camera ardente all’Hotel Vesuvio, una foto che lo ritrae sul letto di morte, e più di cento caricature originali.
Mancusi, nominato commendatore da Napolitano, e superata la boa degli ottant’anni, vorrebbe finalmente trovare una sistemazione definitiva per i cimeli di Caruso, che in gran parte descrivono il coté americano della vita di don Enrico. «Venni a Napoli – ricorda – nel 1999 in occasione di una mostra alla sala Gemito.
Portai con me una piccola parte dei cimeli, fotografie, dischi, locandine, abiti di scena, oggetti personali del tenore. Doveva essere la base per realizzare il museo a Napoli, molti politici si impegnarono, fecero promesse, ma alla fine non se ne è fatto nulla. Mi rispedirono tutto indietro. Pochi oggetti sono rimasti nel Salotto Caruso realizzato nel retro della farmacia di alcuni miei parenti, in via Duomo. Ora però vorrei trovare una sistemazione stabile, c’è tanta roba. È chiaro che preferirei portare tutto a Napoli, è lì che batteva il suo cuore».