Napoli. Rock al San Paolo, la notte del grande ritorno di Vasco Rossi | Leggi

Napoli. Rock al San Paolo, la notte del grande ritorno di Vasco Rossi | Leggi
di Federico Vacalebre
Sabato 4 Luglio 2015, 08:50 - Ultimo agg. 21:02
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L'astronave atterrata sul prato conteso del San Paolo è una cattedrale di metallo pesante (heavy metal), più che agli show ipertecnologici dilaganti guarda al monolite di «Odissea nello spazio», quando Kubrick pensava al 2001 come ad un futuro ancora lontano da venire. Solo che invece di forme invisibili di natura aliena contiene forme visibilissime, e rumorosissime, di preistoria sonica. E, al posto di scimmie curiose, ad attendere l'ultimo romantico del rock and roll c'è il popolo del Komandante. Non è tanto Shostakovich ad infiammare i 56 mila dello stadio, quanto i primi versi di «Sono innocente», accompagnati dalla prima smorfia di Vasco che si gode il bagno verace di folla avvertendo sempre: «Non prendetemi troppo sul serio».

Non è ancora il momento delle Albachiara napoletane, seni e sogni più pesanti che nel resto d'Italia. Si comincia dando voce alla rabbia, all'insofferenza di una combriccola accomunata, più che dalle multe da pagare o dalle pastiglie e dai rospi da ingoiare, da quel qualcuno «sempre pronto a giudicare qualche incidente di gioventù». Per una notte almeno, quella del San Paolo restituito alla musica, quella del «Live Kom 2015», anche le pecorelle più tenere del popolo del signor Rossi indossano la corazza cinica di chi confessa di aver vissuto: «Facciamo una prova/ vediamo come te la giochi/ se vivi tra due fuochi/ se cadi come un pollo/ o resti in piedi come Rocky».

Tutti innocenti, che è come dire tutti colpevoli. «Buoni o cattivi», suggeriva l'ultimo tour che portò qui undici anni fa il cantautore di Zocca, che si muove sornione conscio dell'età, e poi lascia esplodere i suoi spari nella notte: «Un duro incontro» e «Deviazioni» uniscono il presente e il passato, ma il messaggio è sempre lo stesso.

Sarà anche mainstream il rock italico che la band forgia in scena, sarà anche più «matusa», si sarebbe detto una volta, ma la filosofia è sempre la stessa: «Credi che basti avere un figlio, per essere un uomo e non un coniglio».

E lo spirito più puro del rock'n'roll si materializza con «Rewind», quando una ragazza in topless inquadrata sul grande schermo strappa un boato alla folla, mentre biancheria intima femminile piove sul palco. Vasco raccoglie un reggiseno, lo porta alla cintola e sottolinea il testo in arrivo: «Fammi godere, fammi un... piacere».

Genitori e figli, ma anche nonni e nipoti, si ritrovano in un coro da stadio che non ha avversari e sa farsi davvero comunitario e identitario, mentre musicalmente parlando, si (con)fondono pop e rock, melodia e progressive, cantautorato e cronache di ordinaria follia. Le chitarre di Stef Burns e Vince Pastano, il basso di Claudio Golinelli, la batteria di Will Hunt, le tastiere di Alberto Rocchetti, il sax di Andrea Innesto, la tromba di Frank Nemola e i cori di Clara Moroni vestono con onestà e poca fantasia il canzoniere vascorossiano. Si comincia con un suono duro, con la coscienza che «Siamo soli», si va a ritroso nel tempo con «Credi davvero» (da «Vado al massimo», 1982) per poi tornare all'attualità con «Guai» e il buffo «Blues della chitarra sola».

Un breve strumentale e l'accenno a «Rockstar» per tirare fiato, poi un siparietto unplugged con Pastano alla chitarra acustica e il Gallo al contrabbasso. «La noia» è la sorpresa del set, seguita dal power sound di «Quante volte». Poi per i 56 mila è il momento di urlare al cielo «C'è chi dice no» e inseguire «Sballi ravvicinati del terzo tipo». «Delusa» è la base per un mash up progressive dove si intrecciano «T'immagini», «Mi piaci perché» e «Gioca con me» in un virtuosismo retrorock.

E, poi, l'apoteosi, «Sally», «Siamo solo noi», «Vita spericolata», «Albachiara», ballate e inni passati di generazione in generazione. Come le canzoni del Lazzaro Felice: «Napoli è mille colori e io voglio dedicare questo concerto a un caro amico e grande artista. Viva Pino Daniele».

Se gli altri show dell'estate, da quello di Jovanotti che arriverà qui il 26 luglio, a quello modernissimo di Tiziano Ferro, chiedono alla cornice di farsi contenuto, o quantomeno narrazione portante, il Blasco chiede al fronte del palco solo un appariscente sostegno: ha bisogno di avere i piedi ben piantati per terra perché il suo canto, come la vita, «è un brivido che vola via è tutto un equilibrio sopra la follia».

Poi lo stadio si svuota «ognuno perso dietro i cazzi suoi», gli amori da costruire o quelli che stanno morendo, il lavoro domattina presto o il lavoro che non c'è. Però si può almeno sognare di ritrovarci «come le star a bere del whisky al Roxy Bar». E non c'è nessuno uscendo dal San Paolo che quel bicchiere non lo dividerebbe volentieri con il Komandante, stanco e sudato ma vittorioso, che ha riaperto lo stadio di Pino e di Diego, come l'ha chiamato lui, alla musica.

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