Stones, il viagra rock
al tempo della Brexit

Stones, il viagra rock al tempo della Brexit
di Federico Vacalebre
Sabato 23 Settembre 2017, 22:45 - Ultimo agg. 24 Settembre, 12:17
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«Time waits for no one» non è in scaletta, ma il suo insegnamento è sacrosanto: il tempo non aspetta nessuno, ogni bella scarpa addeventa scarpone, persino il satiro pansessuale Jagger, persino il pirata blues Richards, figurarsi noi comunissimi mortali. Mick, la bocca maschile più celebre di sempre, a 74 anni è uno di quei supernonni scattanti, le rughe sul volto non troppo liftato a confessare di aver vissuto: la sua voce nasale era un'eruzione inevitabile come l'acne giovanile, ora è viagra dei sentimenti, straordinaria gestione di un talento da animale del palcoscenico, suono della criogenesi spontanea, sesso ma virtuale se non virtuoso. Keith, la chitarra-killer più sorniona di tutti i tempi, più carnale che romantica, più malattia che cura, a 73 anni sembra - ormai da tempo - uno zombie, i torrenti di rughe a confessare di aver stravvissuto.
 

 

Li chiamavano i Glimmer Twins, i Gemelli Scintillanti. Gemelli non lo sono più da una vita, ma scintillano ancora, nella notte di Lucca, circondati dalle mura storiche che nemmeno nei tempi dell'alluvione conobbero così tanto clamore come nel carosello del più antico, diciamolo pure, jurassico, rock and roll circus. Come Buffalo Bill nei suoi ultimi show, le Pietre Rotolanti di questo «No filter tour 2017» sfidano se stessi, fanno rock nell'era della morte del rock, ritardano il proprio pensionamento come quello del loro pubblico: noi tutti, ex combattenti di strada un tempo convinti che nelle nostre sonnolente metropoli occidentali non ci fosse altro gioco possibile che il vitalismo disperato e decadente di un rock'n'roll che non fu mai più ingenuo dopo aver ammesso la «Sympathy for the devil», pezzo che non a caso apre lo show. Ormai devitalizzato come un dente cariato, il canto dei fiori del male sa più di fitness che di inno alla maestà satanica,  ammesso che qualcuno badi ancora alle parole e non solo all'acida sei corde di Keith doppiata con selvaggia maestria da quella di Ron Wood, alla ritmica puntuale di Charlie Watts. Così puntuale e implacabile - anche perché straordinariamente supportata dal basso-martello di Darryl Jones più Chuck Leavell e Matt Clifford alle tastiere, Bernard Fowler e Sasha Allen ai cori, Karl Denson e Tim Ries ai fiati - che subito, a mo' di unico pensiero positivo possibile e di ultima certezza, ci fa ululare alla luna «It's only rock'n'roll (but we like it)».
«Tumbling dice» è una pagina da sopravvissuti agli anni Sessanta, le poche reverie d'antan pescate dall'ultimo album «Blue & lonesome» («Just your fool» è rubata a Buddy Johnson, «Ride 'em down» a Jimmy Reed) sono una sorta di stato di famiglia, ricordano come tutto iniziò quando un gruppo di sbandati inglesi (all'epoca c'era anche il genio Brian Jones) si innamorò della black music, scoprì la «sua» America, reinventò il miglior sogno a stelle e a strisce possibile, quello sonoro. Il resto arriva soprattutto dagli anni '70, con salti negli '80 e '90.

Quattro giganteschi pannelli si ergono sul palco come monoliti luminosi proiettando immagini animate, sputando fuoco e fiamme su uno show kolossal, ma dalla concezione tradizionale: sudore e adrenalina, sia pure con i medici personali - e le macchine per la rianimazione - dietro le quinte. Sir Jagger saluta nella nostra lingua: «Ciao Lucca, ciao Italia. Questa è la prima volta che suoniamo in Toscana». Poi: «Questa è la canzone che avete votato voi, scusate ma non è Puccini». E vai con «Let spend the night together». E, ancora: «Stasera mi sento un' po romantico», tanto da stonare divertito «As tears go by» nella sua buffa versione italiana («Con le mie lacrime»). Non basta: «Ieri ho mangiato un gelato a Ponte Vecchio con la May, un pomeriggio delizioso». Un (timido) appoggio alla Brexit? Più tardi, comunque, sarà meno diplomatico, lasciandosi scappare un «che cazzo!» a reggere il confronto con Keith: «Mannaggia a chi ci vuole male» dice, anche  lui in italiano, sembrerebbe quasi napoletano, forse ispirato dal manager Mimmo D'Alessandro, altro trionfatore della serata di Lucca, così a lungo inseguita, così ostinatamente costruita.
Un tempo disinibiti, promiscui e perennemente sull'orlo di una crisi di nervi, oggi i supernonni Stones sono più credibili quando ripetono ai nipotini «You can't always get what you want» piuttosto che quando rispolverano il feticcio tossico di «Brown sugar» o l'inno da ribelli senza causa nè pausa di «Street fighting man». Storie di un milione di anni fa: più compatibili con lo status odierno di magnifici anzianotti sembrano il peana alla sensualità delle «Honky tonk women», la storia di un «Midnight rambler», la confessione acida e blackissima di «Miss you». Richards canta - si fa per dire - «Happy» e «Slipping away», ma soprattutto ritrova il tocco letale del bluesman più perduto del mondo, tirando il collo alla sua chitarra, vendendo ancora una volta l'anima al diavolo per travestirsi da Robert Johnson all'incrocio fatale. «Start me up» è l'energetico necessario prima di consumare la confessione di impotenza di «(I can't get no) satisfaction» e il sabba finale dei bis, l'energia un tempo malsana e ora redenta di «Gimme shelter» e «Jumpin' Jack Flash»: le (ormai finte) tenebre del rock si dissolvono con i fuochi pirotecnici e il ghigno di superMick che va via, mentre le mura di Lucca tornano alla loro placida vita.
Chissà se davvero è l'ultima volta dei RS in Italia, sembra  che stiano preparando un altro disco... Mai dire mai.

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