Tuxedomoon: «Ritorno alle origini
ma sempre cercando nuovi suoni»

Tuxedomoon 2016
Tuxedomoon 2016
di Federico Vacalebre
Domenica 27 Novembre 2016, 14:20
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Qualcuno si è perso, in senso letterale come figurato, qualcuno è partito, qualcuno con la musica non vuole avere più niente a che fare, quasi si trattasse di un'amante fedifraga. Ma molti che c'erano al Palapartenope quel 3 novembre 1981 non resisteranno al richiamo del ritorno dei Tuxedomoon, stasera in concerto al Duel:Beat. In scaletta c'è nientepopòdimeno che «Half mute», il primo seminale album della band di San Francisco. Allora come ora, il loro portavoce è Steven Brown.

Un monumentale cofanetto, ora come allora distribuito in Italia dalla Materiali Sonori, ha da poco ricapitolato la vostra storia, Steven. Ma come mai nel 2016 i membri originali della band - con te Peter Principle e Blaine Reininger, più Luc van Lieshout e l'oggi scomparso Bruce Geduldig - vi siete messi a rivisitare proprio quel lancinante esordio del 1980? Come mai ripartire dall'ossessivo richiamo di brani storici ed epocali come «59 to 1»?

«Un po' per caso, un po' per gioco, un po' perché non solo il nostro pubblico è affezionato a quei suoni. Il nostro primo disco era frutto di una totale libertà, di una totale pazzia: volevamo fare qualcosa di differente da tutto quello che si sentiva in giro e l'abbiamo fatta, senza compromessi».

Arrivaste come gli «sperimentatori americani», per fare avanguardia elettronica bastava una tastierina Casio. Poi l'Europa vi adottò.

«Eravamo troppo sperimentali per l'America. Trentasei anni dopo, nonostante ognuno di noi abbia intrapreso carriere soliste e formato altri gruppi, quello dei Tuxedomoon è ancora il progetto a cui tutti noi teniamo di più. E continuiamo a cercare di fare qualcosa di nuovo da quello che si sente in giro: ora duro e violento, ora tenero e introspettivo. In fondo, possiamo tornare ad ''Half mute'' proprio per questo: il sound predominante non è certo quello di ''James Whale''. A proposito: la scaletta del concerto seguirà rispettosamente quella del disco».

Pur essendo tornati spesso a Napoli, l'appuntamento di stasera assumerà il tono dell'amarcord generazionale. Ricordi di quello show del 1981?

«Come no, il nostro manager italiano, Claudio Di Rocco, ci aveva avvertiti che sarebbe stata un'esperienza forte, ma non potevamo immaginare quanto. C'erano strani personaggi che ci abbracciavano, ci parlavano senza preoccuparsi che non capissimo una parola, ci offrivano da bere e altre sostanze: erano dovunque, dal bakcstage al palcoscenico. Una sorta di anarchia governabile e godibile, insomma, la via partenopea al punk. Poi ho avuto modo di conoscere meglio la città e le sue icone: Totò, Sofia Loren e Sergio Bruni».

Bruni? 'A voce 'e Napule all'estero non ha la notorietà che meriterebbe.

«L'ho scoperto per caso, come mi è successo con Tenco, a cui ho dedicato un mio album solista. Me lo suggerì un amico in Toscana, ha un'ugola straordinaria, è una delle cose di Napoli che porto sempre con me».

Una? Quale sono le altre?

«Ho una caffettiera verace senza della quale non saprei vivere in Messico».

Che cosa hai/avete perso e che cosa guadagnato dal 1980?

«Se volessi semplificare direi che abbiamo perso le illusioni e portato a casa le delusioni. E che abbiamo perso Bruce. Ma di sicuro non abbiamo perso i Tuxedo Moon e ci siamo ri/trovati ancora, cosa, che visto il tempo passato, non è un cattivo risultato».

Chi c'è ai visual dopo la scomparsa di Geduldig?.

«David Haneke, figlio del regista Michael. Dopo la morte di Bruce, il 7 marzo, lui ci ha dato il contributo visivo necessario per i nostri live che, da sempre, ambiscono a essere qualcosa di diverso da un semplice concerto. Questo tour è diventato anche una maniera per rendere omaggio a dire addio al Tuxedomoon che non c'è più».
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