Cappuccio: «Il mio Shakespeare parla la lingua di Basile»

Cappuccio: «Il mio Shakespeare parla la lingua di Basile»
di Luciano Giannini
Mercoledì 2 Marzo 2016, 11:59
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«All'origine di Shakespea Re di Napoli - racconta l'autore e regista Ruggero Cappuccio - c'è un grande uomo di teatro, Leo De Berardinis. È suo il merito di questo copione. Mentre era a Napoli, gli spiegai l'idea di un lavoro sui sonetti di Shakespeare, la sua lingua e quella napoletana di Basile. Ci lasciammo, ma lui mi telefonava ogni settimana per sapere se avessi cominciato a scriverlo... Un giorno mi invitò a Sant'Arcangelo, mi portò alla Rocca malatestiana e mi annunciò: Debutterai qui, al festival. E io: Ma il testo non c'è. Fa nulla. Siamo a maggio, devi andare in scena a luglio. Hai tempo. Ci salutammo, mi segregai nel mio Cilento e detti anima e carne alla fantasia. Oggi lo spettacolo ha 22 anni ed è ancora sui palcoscenici. Credo sia il più longevo dopo Arlecchino servitore di due padroni di Soleri».

«Shakespea Re di Napoli», prodotto dallo stesso Cappuccio con il suo Teatro segreto, arriva da stasera a domenica 6 al Nuovo con Claudio Di Palma e Ciro Damiano.Per spiegare il testo e la sua storia occorrono due premesse. La prima: «Quello dei Sonetti - spiega l'autore-regista - è uno dei misteri più straordinari nella storia della letteratura di tutti i tempi, innanzitutto per la dedica al W.H. Chi si cela dietro quelle due lettere? Non certo un nobile della società elisabettiana. Sarebbe stato impossibile non citare per esteso i titoli e il nome compiuto di un lord. Per giunta, nei versi le allusioni alla sessualità, alla sua ambivalenza e all'erotismo sono frequenti pur se celate, fino al Novecento inoltrato, da traduzioni e letture perbenistiche. Probabilmente W.H. era un giovane attore della sua compagnia interprete dei ruoli femminili e amato da Shakespeare».L'altra premessa: «Sono frequenti i segnali, nella sua opera, dell'interesse che egli aveva per Napoli. Basti pensare alla Tempesta. Così, ho immaginato che il Bardo abbia visitato la città alla fine del Cinquecento, durante un Carnevale, ospite del viceré che gli consentì, in quella notte di trasgressione in cui tutti si mascherano e non appaiono ciò che sono, di salire al suo posto sul trono durante la festa. Napoli, per Shakespeare, era un'isola archetipica del teatro. Perciò, chiese al viceré di fare quella che oggi si chiama un'audizione, con l'intento di scoprire giovani guitti e saltimbanchi del luogo. Ne notò uno, Desiderio, bellissimo, se ne invaghì, lo portò con sé a Londra; durante il viaggio gli insegnò l'inglese. Il ragazzo imparò la lingua per via sonora, e poco dopo, al Globe Theatre, divenne Ofelia, Desdemona, Giulietta...».

La pièce comincia 15 anni dopo quest'antefatto. Allo sfiorire della bellezza, Desiderio torna a Napoli, colpa anche della peste che infesta Londra, e racconta la sua incredibile storia all'amico Zoroastro. In quale lingua? «In un napoletano come lo si poteva parlare nel Seicento, sulla falsariga di quello usato, e inventato, da Basile in Lo cunto de li cunti, precisa Cappuccio. «Shakespeare e Basile sono come due specchi, perché molte delle formule linguistiche e delle metafore da loro usate si rassomigliano, quasi che i due abbiano avuto qualche notizia l'uno dell'altro».Per i versi del Bardo usati nello spettacolo, l'autore si è servito «di una creatura straordinaria, Pietro La Via, di Massalubrense, nato nel 1896, amico di Gide e Gemito, che per la Sen pubblicò una traduzione dei Sonetti rispettosa della metrica originaria, della rima alternata e del distico finale».
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