D'Angelo riapre il Trianon: «Il Teatro Festiva ci dia spazio»

Nino D'Angelo al Trianon
Nino D'Angelo al Trianon
di Federico Vacalebre
Sabato 6 Agosto 2016, 11:25 - Ultimo agg. 13:02
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Una signora gli si avvicina e gli dice: «Sono in chemioterapia, mi poseresti la mano sulla testa?». Nino D’Angelo rifiuta come può («scusami, sono credente, non posso proprio, sarebbe sacrilego, ma vedrai che dio ti fa guarire bene e presto»), poi cerca di capire che cosa sta succedendo. È il giorno del suo ritorno al Trianon, anzi al «teatro del popolo Trianon Viviani», sottolinea con orgoglio: «Mi hanno cacciato sei anni fa, per Caldoro non contavano i risultati ottenuti, per lui ero troppo bassoliniano. Rieccomi qua». Sei anni sono tanti, ma l’ex scugnizzo col caschetto a Napoli è sempre di casa, e la devozione con cui è accolto («fatemelo toccare pure a me», urla una ragazza), il misto di stima e affetto, va oltre la voglia del selfie con il vip verace, è sorprendente, inatteso. «È difficile da spiegare, è come se questo quartiere fosse stato abbandonato per sei anni, come se il mio ritorno, che è ben piccola cosa, riaccedesse una luce, una speranza».
Cgil, Cisl e Uil lo salutano, i lavoratori del teatro se lo coccolano emozionati. Il governatore De Luca, ringraziato da tutti («un anno fa mi aveva promesso la riapertura: ci siamo») non c’è, nemmeno il suo consigliere per la Cultura Sebastiano Maffettore, un vero assessore regionale servirebbe anche a questo. Gianni Pinto, presidente del cda, stappa la bottiglia rituale, Francesco Emilio Borrelli porta il saluto del consiglio regionale, Nino sale sulla scala all’esterno della sala di piazza Calenda per liberare l’insegna dallo striscione contro Caldoro «e quanti questo teatro hanno rischiato di farlo morire davvero», spiegano amici, teatranti, cantanti, impresari arrivati per partecipare alla festa.
«È bello se Forcella avverte questa mattinata come un momento simbolico, come una festa», commenta Nino salendo sulla scala: «Io non sono uno sportivo, ma questa soddisfazione me la voglio togliere», dice, poi sale scortato, fatica a tagliare le corde che trattengono lo striscione, ma quando ce la fa... «l’applauso è più bello di quelli dei concerti, lo giuro».
Il più è fatto, anzi no, «dite a tutti che devono venire al Trianon. I 4.500 abbonati di un tempo si sono volatilizzati, li cercheremo ad uno ad uno, e cercheremo quelli nuovi. I teatri borghesi cittadini hanno già annunciato i loro cartelloni, noi presenteremo a settembre i 7-8 titoli che possiamo mettere in piedi. Questo sarà un teatro aperto, un teatro dei giovani, un teatro della tradizione, un teatro di Forcella, un teatro di una Napoli che non si riconosce nella rappresentazione che si dà della città».
Ma la sfida è ardua: c’è da rimettere in sesto una sala che ha bisogno di un restauro celere, da preparare in corsa una stagione, da convincere il pubblico, da dare almeno qualche segnale di quello che potrebbe essere il teatro del popolo Trianon Viviani a pieno regine. Pinto è ottimista, o quasi: «Ieri abbiamo aperto le buste per i lavori, si erano presentate 120 imprese, ha vinto una di Roma, appena formalizzeremo il contratto inizieranno, dovrebbero farcela per l’inizio di novembre».
Già, perché D’Angelo vorrebbe aprire il 12 novembre, decimo anniversario della morte di Mario Merola: «Glielo devo io e tutta la città. È stato un grande, non solo il re della sceneggiata. E con una sceneggiata, il suo personale cavallo di battaglia, vorrei ricordarlo». Non sarà però lui, che pure «nun s’a scorda ‘a mamma», a vestire i panni di «’O zappatore»: «Non sarebbe giusto, concordo con chi dice che i direttori artistici non devono essere troppo presenti nei loro cartelloni. Mi piacerebbe che quel ruolo andasse a Francesco, il figlio di Mario. E mi piacerebbe che la regia fosse di Carlo Cerciello, dobbiamo contaminare tradizione e modernità, senza tradire il pubblico, però».
E poi? «Io potrei fare un concerto, oppure portare anche qui quel “Senza giacca e cravatta” con cui già sarò al Cilea, ma non dipende da me. Anzi mi piacerebbe fare l’ultimo spettacolo di stagione riprendendo, per l’ultima volta, “L’ultimo scugnizzo”. Sembra quasi un gioco di parole, ma vorrei lasciare qui dentro, a due passi dalla ruota dell’Annunziata, il costume di scena di ‘Nntonio Esposito».
E poi? «Comicità, ma guardando più a Trottolino, Lino Crispo e Bianca Sollazzo che al modello televisivo imperante. Storie da Gomorra? Ben vengano, ma solo se nella trama c’è spazio per le voci della brava gente, che c’è a Forcella, che c’è a Scampia e in ogni Terranera. Il problema, in fondo, è sempre lo stesso: quando sono arrivato qui comprai le porte da calcio agli scugnizzi del quartiere, non avevano dove giocare. Gli organizzai la prima partita in piazza, gli feci promettere che alle cinque avrebbero smontato tutto, che avrebbero rispettato il teatro e i suoi spettatori. L’hanno fatto. Senza diritti non ci sono doveri. Senza istruzione, senza lavoro, senza... sei condannato. Questo è un avamposto, forse capisco perché quella signora voleva essere benedetta da me, ma io non faccio miracoli, speriamo che basti l’impegno. Però una cosa la voglio chiedere a De Luca: la scorsa gestione si è fatta portare via anche l’ufficio in cui lavoravamo. Spero che il presidente continui ad essere al nostro fianco, ci trovi due stanzulelle, ci liberi dai debiti che ci affligono, ci dia le risorse per il rilancio. Poi, lo so che non decide lui, sarebbe bello rivedere qui a Natale Peppe Barra con “La cantata dei pastori”: se davvero si farà una sessione invernale del Teatro Festival potremmo essere anche noi della partita? O siamo troppo popolari e poco chic?».
 

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