«Otello» a Napoli, quando Rossini
tradì Shakespeare

«Otello» a Napoli, quando Rossini tradì Shakespeare
di ​Sergio Ragni
Mercoledì 30 Novembre 2016, 14:40
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La presenza di Rossini a Napoli fu annunciata dopo mesi dal suo arrivo. Il tono usato dal redattore del Giornale delle Due Sicilie era a dir poco di sprezzante scetticismo. Solo in coda all'elenco degli artisti giunti in città il giornalista si degnava di menzionare anche «un tal Signor Rossini che si dice venuto per dare una sua Elisabetta Regina d'Inghilterra su questo stesso teatro di S. Carlo che risuona ancora de' melodiosi accenti della Medea e della Cora dell'egregio Signor Mayr».

Per quanto avesse già conquistato i palcoscenici della Fenice di Venezia e della Scala di Milano, battendo tutti i record di repliche mai registrate in quei teatri, l'esordio di Rossini in quello che era all'epoca considerato il teatro più importante al mondo, si presentava come un'impresa assai più impegnativa delle precedenti. Il molto poco cordiale benvenuto del giornalista era il termometro anche dell'incognita del gradimento di Sua Maestà Ferdinando IV, da poco reinsediatosi sul trono. Pochi mesi prima Rossini aveva inneggiato all'arrivo di Gioacchino Murat a Bologna, sicuro di dover ritrovare di lì a poco il suo omonimo, sovrano del regno delle Due Sicilie.

A Napoli l'accoglienza del re era fondamentale per l'affermazione di un musicista, soprattutto se giovane come Rossini. Il San Carlo era il più sfolgorante salone della reggia di Sua Maestà Ferdinando: quando c'era lui nessuno poteva battere le mani se non dopo un suo primo accenno, e prima di battere le mani al ventitreenne compositore, di cui più tardi diventerà un convinto ammiratore, Ferdinando per regale convenienza dovrà temporeggiare per qualche mese. Alla prima di «Elisabetta regina d'Inghilterra» qualcosa di significativo già avvenne. Il re, accorgendosi della grande attenzione e della sorpresa del pubblico per quella «nuova» musica, preoccupato dall'energia che si andava accumulando in sala, calato il sipario, alla chetichella, si allontana dal teatro.

La partenza del sovrano autorizza il pubblico all'entusiasmo più sfrenato. Rossini, scrivendo il giorno dopo alla madre, può annunciare raggiante: «Cara Mammona Furore - scritto a caratteri cubitali nella sua lettera - Oh! che musica oh! che musica dice Napoli, non è possibile ch'io vi spieghi qual sia l'entusiasmo prodotto costì dalla mia musica». Con o senza benestare di Sua Maestà, una sola opera basta a far di Rossini, com'era già avvenuto a Venezia e a Milano, l'idolo delle folle e il principale argomento di conversazione nei caffè e nei salotti di Napoli. Barbaja aveva scritturato Rossini per un'opera seria da darsi al San Carlo e un'opera comica destinata al Teatro dei Fiorentini, ma il successo di «Elisabetta» è tale che prima ancora che il compositore cominci a lavorare alla «Gazzetta» viene ingaggiato nuovamente per scrivere una seconda opera seria. Questa volta l'incarico di scriverne il libretto non se l'assumerà uno dei poeti stipendiati del teatro ma un nobile. Il dotto marchese Francesco Berio di Salsa non vuole assolutamente perdere l'occasione di poter affiancare il suo nome a quello di un autentico genio della musica. Nel suo palazzo in via Toledo il marchese riunisce gli spiriti più eletti della società partenopea e gli stranieri più illustri in visita alla città. Berio, proprietario di una vastissima biblioteca, è un appassionato conoscitore di letteratura inglese. Il marchese vorrebbe tanto cimentarsi con Shakespeare e propone in prima battuta al compositore l'«Amleto». Rossini non è troppo convinto ma quando Berio gli propone «Otello» resta immediatamente conquistato: «Otello»? e «Otello» sia. Le sfide piacciono a Rossini. Pur rendendosi conto dell'azzardo di mettere in musica una vicenda ai limiti della rappresentabilità, Rossini vuole mettere se stesso alla prova come compositore d'opera seria, anzi serissima. Il suo impatto con l'ineguagliata compagnia di canto, l'orchestra e il coro del più grande teatro al mondo gli ha fatto prendere la decisione di dedicarsi, fin tanto che gli sarà possibile, esclusivamente all'opera seria, l'unica che può rappresentarsi nella sala del San Carlo.

Fatalità vorrà che la seconda opera seria napoletana di Rossini non avrà la sua prima al San Carlo ma al Teatro del Fondo, essendosi incendiato il primo. Siamo nel 1816 e «Otello» costituisce un titolo ancora troppo provocatorio e violento, tanto da dover prevedere in alcune traduzioni francesi l'eventualità d'un finale lieto da prospettare ai pubblici più sensibili e meno preparati alla tragedia. È una sfida, e Rossini che già per sua esigenza artistica in «Tancredi», almeno per una volta, era voluto tornare al finale tragico previsto da Voltaire, decide che la drammaticità di «Otello» sarà il banco di prova delle sue possibilità nell'opera seria. Mentre Boito e Verdi seguiranno molto più da vicino Shakespeare, - ma siamo settant'anni più tardi! - Berio e Rossini traggono dall'Inglese solo gli elementi che possano concorrere per una nuova invenzione drammaturgica. La scelta di librettista e compositore non derivava esclusivamente dalla necessità di attenuare i toni e il linguaggio a volte brutale dell'originale, ma piuttosto dall'esigenza di semplificare la vicenda riconducendola a situazioni nelle quali la musica possa esprimersi più liberamente. Dice Rossini: «Mentre le parole e gli atti esprimono le più minute e le più concrete particolarità degli affetti, la musica si propone un fine più elevato, più ampio, più astratto. La musica allora è, direi quasi, l'atmosfera morale che riempie il luogo in cui i personaggi rappresentano l'azione». In «Otello», più che altrove, Rossini mette in atto una poetica alla quale resterà sempre fedele e che, non ultimo, sarà uno dei motivi che lo costringeranno all'abbandono del teatro. Da questa visione deriverà l'opera seria più popolare e più rappresentata nel XIX secolo, presenza obbligatoria su tutti i palcoscenici europei, isole comprese, in particolare la Gran Bretagna. Al di là dei dettagli, come il fazzoletto sostituito da una lettera e da una ciocca di capelli, le differenze da Shakespeare sono tante e sostanziali. Nella vicenda narrata nell'opera manca il personaggio di Cassio che è poi quello che scatena la gelosia di Otello in Shakespeare, mentre assume invece molta più rilevanza Rodrigo imposto come sposo a Desdemona dal padre, nel corso di una improvvisata cerimonia nuziale bruscamente interrotta dall'arrivo inaspettato di Otello. L'efficacia della rilettura rossiniana è tale che nell'Ottocento la riconoscibilità di «Otello» fu ricondotta non più a Shakespeare ma a Rossini. Alcune situazioni, del tutto estranee all'invenzione dell'Inglese, divennero emblematiche della stessa tragedia, come la grande scena della maledizione nel finale del primo atto che resterà un modello di concertato anche a distanza di molti anni e che Eugène Delacroix in un suo quadro riproporrà come uno dei momenti più significativi del dramma. Un duello tra Otello e Rodrigo, anche questo mai immaginato da Shakespeare, consentirà a Rossini di creare per la sua primadonna una «scena madre»: Desdemona, angosciata, è in attesa di conoscere l'esito del duello. La grande aria «Che smania? ahimé! che affanno?» e l'immediatamente successiva patetica perorazione «L'error d'un infelice» che Desdemona rivolge al padre per chiedergli il perdono sono situazioni che nell'Ottocento divennero momenti irrinunciabili del dramma, del tutto mancanti in Shakespeare.

L'aria costituiva uno dei momenti più avvincenti della recitazione di Isabella Colbran prima interprete del ruolo.

In Rossini protagonista dell'opera non è Otello ma Desdemona. Fin dalla sua prima comparsa il personaggio porta con sé il presagio della tragedia inevitabile. Desdemona è consapevole che la scelta che ha fatto - l'error d'un'infelice - la porterà al più funesto destino. Anche il terzo atto che costituisce sicuramente uno dei vertici massimi del melodramma italiano, pur seguendo più da vicino Shakespeare, se ne deve spesso distaccare per permettere alla musica di esprimersi più liberamente. Rossini chiede a Berio di inserire i versi di Dante - come se non bastasse tutto Shakespeare! - «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria» facendoli cantare da un gondoliere: il canto, che arriva da lontano, accentuando così il senso di una felicità irrecuperabile, diventa l'espressione massima del dolore di Desdemona e quasi anticipa la sua canzone del salice, di stupefacente bellezza. Nel duetto finale Rossini escogita un altro stratagemma: scatena nell'orchestra una tempesta che diventa la colonna sonora ideale per la drammatica conclusione. Era la prima volta che si portava in scena un assassinio ma il pubblico napoletano, all'epoca designato come il più competente e preparato, decretò il trionfo. Il duca di Noja, sovrintendente di allora, all'indomani della prima si sentì in obbligo di scrivere a Rossini: «Voi filosofo de' cuori, conciliando le leggi armoniche colla verità dell'espressione avete saputo servir perfettamente agli affetti che destar voleva l'autore del dramma, ed al genio della musica che in voi fervidamente signoreggia».

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