San Carlo, Otello contemporaneo
tra Caravaggio e Pasolini

San Carlo, Otello contemporaneo tra Caravaggio e Pasolini
di Amos Gitai
Mercoledì 30 Novembre 2016, 14:45
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Qual è il compito di un regista o, più in generale, di un artista, oggi? Non certamente quello di illustrare una storia, limitandosi a raccontarla così come una tradizione, magari lunga cinque secoli, l'ha tramandata. Per dare senso a un'operazione culturale, com'è quella sottesa alla regia, occorre contestualizzare la vicenda così da avvicinarla al gusto del pubblico cui ci si sta rivolgendo e renderla attuale. In una parola: interpretarla. È quello che ho cercato di fare con questo «Otello», la cui musica mi ha toccato profondamente e mi ha trascinato verso il mondo dell'opera. Non ho potuto fare a meno, leggendo la storia, di interrogarmi sul perché già nel Cinquecento uno scrittore scegliesse come protagonista un moro, un uomo legato a una cultura altra da quella europea. Evidentemente, quella della diversità era una questione assai sentita, così come lo è, ai nostri tempi, la discussione sui migranti in fuga da guerre e povertà. Il libretto di Rossini ha certamente varie venature romantiche e la trama si prefigge di colpire lo spettatore puntando principalmente sulla storia d'amore. Il centro motore del dramma, appunto, risiede nella figura di Desdemona, personaggio forte e centrale, la cui bellezza viene non a caso qui sottolineata dai costumi affascinanti di Gabriella Pescucci.

Ma oltre l'aspetto passionale, in «Otello» vive un risvolto psicologico e sociale di profonda attualità e, per renderlo davvero percepibile, appare necessario riferire il racconto al contesto che ci circonda. Mi viene in mente Pier Paolo Pasolini, a proposito dell'approccio in questione, che ne «Il vangelo secondo Matteo» reinterpreta le sacre scritture in forma personale e moderna, contro ogni convenzione, per renderle comprensibili ed esaltarne il messaggio. Solo in questo modo, attraverso la regia, si fa cultura. Chiunque mi chieda di mettere in scena una sceneggiatura, sia che si parli di teatro o di cinema, dovrà accettare di lasciarmi a disposizione ampi margini di libertà creativa, perché io non sono un illustratore, ma un interprete. Se faccio un film, per la verità, la cosa mi riesce più facilmente, mentre nell'opera - lo dico anche sulla base della mia esperienza di spettatore in viaggio da Salisburgo al Met di New York è più complicato scalfire il meccanismo di convenzioni formatosi nei secoli.

Ho avuto al mio fianco, durante l'avventura napoletana, dei complici straordinari che hanno messo a disposizione del progetto e dei suoi presupposti la propria esperienza: parlo, appunto, di Gabriella Pescucci e di Dante Ferretti, che ha accettato di tornare da New York solo per condividere l'emozione di questo «Otello». Sono fortunato ad avere goduto dell'aiuto di artisti che hanno assimilato la lezione di mostri sacri come Fellini, Pasolini, Scorsese. Il Teatro di San Carlo ha fatto il resto, mettendo a disposizione un cast di livello e un direttore d'orchestra importante. Napoli mi ha regalato scoperte incredibili: in Palazzo Zevallos, per esempio, ho potuto ammirare il più bel Caravaggio della mia vita, e qualcosa del gioco cromatico miracoloso che vive nel «Martirio di Sant'Orsola» abbiamo provato a riprodurlo nel nostro «Otello». Ma la bellezza, di un quadro o di una musica, non è certo sufficiente a farci dimenticare quanta sofferenza esista oggi, nel mondo, e quanto importante sia il compito dell'arte, di qualsiasi arte, nel venire chiamata a tessere un dialogo con la società, tracciando dei valori di riferimento in una situazione complessiva di smarrimento.

Rileggere la tradizione senza timori reverenziali, dunque, è lecito se serve a rendere coraggiosamente vivo il messaggio del teatro. A cominciare, naturalmente, dal melodramma.

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