Toni Servillo: «Viviamo tempi
mediocri il teatro è una necessità»

Toni Servillo: «Viviamo tempi mediocri il teatro è una necessità»
di Titta Fiore
Sabato 1 Ottobre 2016, 08:56 - Ultimo agg. 08:57
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Per tornare al teatro dopo la rotonda complessità della «Trilogia» goldoniana e l'acuminata introspezione delle eduardiane «Voci di dentro», Toni Servillo ha scelto la raffinata asciuttezza di «Elvire Jouvet 40», il testo in cui la scrittrice Brigitte Jacques trascrisse le «Sette lezioni» del grande attore francesce Louis Jouvet sulla seconda scena di Elvira nel «Don Giovanni» di Molière. Una riflessione sul lavoro dell'attore e sulla fatica di stare al mondo affidata all'intensa traduzione di Giuseppe Montesano e affrontata come un corpo a corpo con «il sentimento» dell'esistenza stessa. È così, in questa chiave, che un testo divenuto ormai un classico del genere si fa testimone del nostro presente, antidoto alla superficialità, anticorpo contro il sottile veleno dell'arroganza narcisistica. Non a caso, nel testo che Servillo porterà in scena dall'11 ottobre al Piccolo di Milano per due mesi già esauriti all'80 per cento, e poi a Parigi e quindi a Napoli, in gennaio al Bellini, «sentimento» è una delle parole più ricorrenti. E l'amore, inteso come conoscenza di sé e dell'altro da sé, attraversa le pagine facendo delle «lezioni» un unicum narrativo di rara potenza. Servillo annuisce. Da un mese sta provando a Napoli, proprio al Bellini, con Petra Valentini, Davide Cirri e Francesco Marino, tre ragazzi talentuosi che incarnano il futuro nella «vitale trasmissione del sapere» tra generazioni. Dice: «Il tema dell'amore in Molière è incandescente, da genio qual era ha saputo raccontarlo in tutte le sue forme, dal punto di vista carnale fino allo spossessamento. L'amore, in Molière, è un viaggio nell'oblio di sé».

Invece «Elvira, il nobile mestiere di recitare» sembra un'opera segnata dalla dualità.
«Interamente. Sul palco va in scena il confronto tra uomo e donna, tra maestro e allieva, tra regista e attrice. Ma le lezioni non hanno la pesantezza di un passaggio di saperi dall'alto verso il basso, in Jouvet la maieutica diventa materiale drammaturgico vivo, scottante. Dentro c'è tutto: visioni, solitudini, esperienze parallele, disvelamenti, il corpo a corpo tra due protagonisti che si avventurano in territori sconosciuti e però capaci di rivelare a lui un modo diverso di essere attore e a lei una lettura diversa del Don Giovanni».
Il testo, in altre parole, mostra allo spettatore ignaro il lavoro del teatro...
«Direi, più precisamente, che qui si mostra il teatro al lavoro sull'interiorità dell'uomo. Qui la maieutica è doppia e il dualismo si riverbera sugli ambienti, su quel che avviene dietro le porte chiuse di un teatro, luogo misterioso e segreto per antonomasia, e l'eco di ciò che sta accadendo fuori, nella Parigi in guerra, invasa dai nazisti. E così, quello che può sembrare un testo che si occupa di teatro finisce per porsi domande molto acute sull'esistenza: su verità e menzogna, sentimento e tecnica, narcisismo ed esposizione di sé, paura e desiderio, virtuosismo e dolore».
È questo il suo maggiore fascino, per lei?
«Mi appassiona l'idea che Jouvet ci offra il talento della lettura di un testo, dell'analisi di un personaggio, mi affascina la sua capacità di trasformare un personaggio in una creatura in carne e ossa».
Un magistero solitario?
«Veniamo da un ventennio di mediocrità diffusa, viviamo in un'epoca che invece di favorire un percorso di crescita nella profondità spinge ad accontentarsi di pattinare sulla superficie. Oggi il recitare è sottoposto a un vilipendio, a una prostituzione, a una totale assenza di nobiltà... nobiltà che invece ha caratterizzato la vita di attori come Jouvet. Poeti».
Qual è l'indicazione che più si sente di condividere?
«Non si può pensare di lasciare le nuove generazioni nell'idea corruttrice che la recitazione sia solo un fatto di talento. Jouvet invita ad abbandonare l'ostentazione dell'abilità per arrivare all'essenza drammaturgica. E per venire ai nostri autori, gli stessi Viviani, Eduardo, Moscato e Borrelli ci consegnano un'idea dello stare al mondo molto precisa. Uno specchio in cui possiamo rifletterci. Ecco, io mi ispiro a questi modelli. Ho dedicato la mia attività a fare il teatro e a pensarlo come una necessità, sera dopo sera. Perdersi per ritrovarsi, questa è l'avventura del teatro».
«Elvira», per lei, è anche una sorta di ripartenza?
«Jouvet è forse l'unico ad aver messo per iscritto che cosa succede nella testa e nel cuore di un interprete quando recita una parte. Per un attore i suoi libri sono una bibbia più dei testi di Stanislavskij. Non avendo mai smesso di coltivare la passione per il palcoscenico, mi è sembrato che fosse arrivato il momento di un confronto diretto, anche per una sorta di ecologia della mente, per una necessità di fare pulizia sulla confusione di approcci e di parole, sul senso di questo mestiere che conosce uno svilimento progressivo».
Giudizio severo.
«Basta guardare l'offerta dei cartelloni dei teatri nazionali... Ma tutta la cultura italiana vive un momento poco felice, figuriamoci il teatro... Certo, le eccezioni ci sono, e qui voglio ringraziare i fratelli Russo per averci ospitato durante tutte le prove, è grazie alla loro piena collaborazione che lo spettacolo è nato».
Servillo, lei dice: intorno a noi si è imposto un modello di mediocrità, invece nulla si ottiene senza sforzo.
«È il senso di Elvira. Il testo parte da qui, da questa mise en abyme. Bisogna prendere un impegno con la vita, se si vuole raggiungere il risultato, bisogna dirlo ai giovani. Fargli capire che il teatro non è solo intrattenimento, più o meno interessante».
Per lei che cos'è?
«Sconvolgimento. Intelligenza ed emozione che viaggiano insieme».