Se i media siamo noi
ma non lo sappiamo

di Antonio Pescapè
Giovedì 31 Agosto 2017, 06:00 - Ultimo agg. 08:22
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E anche questa estate sta volgendo al termine. E al solito, è tempo di bilanci. Un’estate bellissima. Come solo le estati sanno essere. Ma anche un’estate che non ci ha risparmiato nulla. Abbiamo visto di ragazzi morti uccisi mentre erano in vacanza. Di ragazzi morti in attesa in un pronto soccorso. E del dolore delle loro famiglie.

Abbiamo visto di bambini, donne e uomini morti uccisi sulla strada più famosa di Barcellona. Di morti uccisi a Ouagadougou in Burkina Faso. E del dolore e dello sdegno del mondo intero. Abbiamo visto di terremoti, di morti e case crollate. E di bambini tirati via dalle macerie e salvati dalle mani grandi forti e delicate dei vigili del fuoco.

Abbiamo visto di incendi e terre bruciate. E di fuoco che di naturale ha avuto poco, pochissimo. Abbiamo visto di violenze e stupri. E del dolore enorme di chi queste violenze subisce.

Abbiamo visto tanto altro e con esso abbiamo visto l’odio e l’amore. Ma dove? Dov’è che, in vacanza in Italia o all’estero, abbiamo letto e visto (tutto o parte di) questo ed altro? E da dove?

Sicuramente dai giornali, sicuramente dalla TV. Ma anche senza citare numeri, che sono tanti e diversi, tutti concordano sul dire che lo abbiamo fatto principalmente dal nostro smartphone connessi alla rete, attraverso social network (Facebook, Twitter o Instagram ad esempio) e altre piattaforme di comunicazione ed informazione.

Abbiamo letto, abbiamo visto, abbiamo ascoltato, ma abbiamo anche e soprattutto scritto o condiviso. Perché si, come ormai tutti sappiamo e diciamo, la rete ci ha trasformati da consumatori passivi in consumatori attivi, cioè consumatori che non solo ricevono ma sono anche e soprattutto produttori di contenuti ed informazioni; i cosiddetti “prosumer”.

Abbiamo pubblicato foto e video di tuffi, tramonti, mari cristallini e montagne da sogno. Abbiamo pubblicato foto di piatti magnifici e abbiamo descritto quello che solo il nostro palato poteva sentire. Abbiamo messo i nostri occhi, le nostre orecchie, le nostre idee in rete. E le abbiamo condivise.

E così come lo abbiamo fatto per tutto quanto scritto sinora, lo abbiamo anche fatto per i fatti di cronaca che ci hanno accompagnati. Senza soluzione di continuità.

Abbiamo commentato e discusso su cosa sono “diventati” i giovani oggi. Sullo stato della Sanità, in Italia in Campania e a Napoli. Sugli stipendi dei manager pubblici. Sul terrorismo, che poi è diventato immigrazione, sui dissuasori. Sul terremoto e sugli incendi. Ed in entrambi i casi delle responsabilità dell’uomo. Sulla violenza e sullo stupro che, anche qui, diventa soprattutto discussione sull’immigrazione. Quasi dimenticando la vita e la dignità di chi lo ha subito.

E su tutto ciò, abbiamo condiviso contenuti di altri. E lo abbiamo fatto comodamente seduti dietro allo schermo di uno smartphone. Uno schermo appunto. Quell’oggetto che ci scherma, ci fa sentire qualcosa di separato dalla realtà, quel qualcosa che ancora oggi fatichiamo a collocare correttamente ed erroneamente definiamo “mondo virtuale”.

Non c’è nulla di virtuale nelle foto e nei video che abbiamo prodotto e condiviso. E non c’è quindi nulla di virtuale in ciò che abbiamo scritto e detto. E’ tutto assolutamente reale e concreto, ma immateriale. Le nostre foto sono state viste. Così come sono state lette ed ascoltate le parole che abbiamo scritto e quelle che abbiamo condiviso. Parole che hanno fatto del bene. Parole che altre volte sono state di odio ed hanno fatto male, malissimo. Come quelle di odio dette guardandosi negli occhi o seduti davanti ad una birra. Uguale. Nessuna intermediazione lì, nessuna più sui social.

Questa libertà, questa magnifica opportunità, porta con sé quindi anche la responsabilità, quella con la r maiuscola. Una responsabilità enorme. Delle cose che facciamo, che scriviamo e che poi pubblichiamo o condividiamo. Non è la rete ad essere il mezzo. Il mezzo siamo noi. Non è la rete ad essere informazione. L’informazione siamo noi.

Capito questo, e spero che accada quanto prima, capiremo meglio come comportarci in rete. Come scrivere, come dialogare, come evitare bolle e fake news. E come produrre e leggere contenuti di qualità. Così come lo abbiamo imparato altrove, nel mondo materiale. Dove, anche lì, c’è qualcuno che ancora oggi non lo ha imparato bene. E si vede. E come se si vede.

Per cui, ancora una volta, lasciamo stare la rete. Non puntiamo il dito. Non è la rete. Siamo noi. Siamo noi con le nostre competenze, con le nostre capacità e la nostra responsabilità. In mancanza di una sola di queste, si fanno danni enormi. Anche d’estate. Anche durante il periodo più spensierato dell’anno. Capiamolo presto, che è tardi anche qui.
 
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