Al Festival di Cannes è il giorno di «Parthenope» di Sorrentino

L’Italia in gara con Sorrentino. Il regista: «Nel film la mia giovinezza mancata»

La cover di Parthenope
La cover di Parthenope
di Titta Fiore
Martedì 21 Maggio 2024, 07:10 - Ultimo agg. 17:00
4 Minuti di Lettura

Oggi è il gran giorno di «Parthenope», il film che ha riportato Paolo Sorrentino a confrontarsi con Napoli, la sua grande bellezza e le sue contraddizioni, con le sue suggestioni azzurre e l’energia irredimibile dopo l’esperienza più intima e personale di «È stata la mano di Dio». C’è molta attesa per il regista premio Oscar, unico italiano in gara a Cannes, e sulla Croisette campeggiano i meravigliosi manifesti con la giovane protagonista, Celeste Dalla Porta, guizzante come una sirena nelle acque del Golfo. Con lei, che promette di essere una delle rivelazioni del festival, stasera faranno una spettacolare Montée des Marches Stefania Sandrelli, Luisa Ranieri, Isabella Ferrari, Peppe Lanzetta, Dario Aita e Daniele Rienzo. Sorrentino ha definito il film come «un’epica del femminile senza eroismi, m abitata dalla passione inesorabile per Napoli e gli imprevedibili volti dell’amore» e a «Variety» ha spiegato di aver voluto raccontare la giovinezza che in pratica non ha vissuto: «Come tutti i registi faccio sempre i conti di quanti film ho dentro di me» ha detto. «In “È stata la mano di Dio” mi interessava descrivere la mia giovinezza, e ho continuato con quest’altra cosa altrettanto interessante, la mia giovinezza mancata, una giovinezza sognata, più che vissuta».

Aspettando che le suggestioni sorrentiniane si prendano la scena, al festival, ieri, si è molto parlato di potere. Il potere della politica e dei soldi, con la storia del giovane Trump e del presidente brasiliano Lula, e il potere dei corpi, con l’ossessione horror che ne deriva, nei film di Cronenberg e di Fargeat. In «The Apprentrice» di Ali Abbasi, il cineasta iraniano-danese di «Holy Spider», Donald Trump (Sebastian Stan) è un ragazzone con il complesso del papà imprenditore che vuole sfondare ad ogni costo nella New York degli anni Settanta costruendo «l’albergo più grande del mondo» sulla Quinta Strada e i casinò più ricchi ad Atlantic City, sposare la miss più bella, la ceca Ivana, e prendersi tutto. Lo aiuteranno gli insegnamenti del cinico avvocato Roy Cohn, già longa manus del maccartismo e consigliere di boss mafiosi: «Attaccare per primo, non curarsi delle regole, non ammettere mai la sconfitta». Trump, che a novembre potrebbe essere rieletto alla Casa Bianca, negli anni del film non pensa alla politica, ma sogna già l’«America great again», e a chi gli chiede cosa farà se gli affari non andranno come spera, replica ridendo: «Potrei sempre diventare presidente degli Stati Uniti!».

Video

E mentre Oliver Stone continua con «Lula» la galleria di ritratti dei leader internazionali («mi piacciono i documentari perché sono onesti, vai nel mondo e racconti davvero com’ė»), David Cronenberg, un altro dei venerati maestri di cui è pieno il concorso, porta in gara la sua ossessione per i corpi da studiare, vivisezionare, trasformare in «The Shrouds», un surreale thriller che comincia come un horror e nella parte finale si perde in una confusa spy story russo-cinese. Vincent Cassel è il vedovo inconsolabile di Diane Kruger: alla scomparsa della donna per cancro (come la moglie del regista), piazza nella sua bara una telecamera attivabile con una app per seguirla oltre la morte, fa di questa macabra bizzarria un’impresa e dota il cimitero telematico di un ristorante alla moda. «Sono ateo e non credo nell’aldilà» ha detto il regista, «ma quando mia moglie morì non potevo immaginare di abbandonarla, e l’unico modo per farlo è la tecnologia. Per questo credo di aver fatto un film realistico». Si spinge fino alle estreme frontiere del body-horror anche «The Substance» di Coralie Fargeat, applaudito come il nuovo «Titane». Nella storia un’attrice in disarmo, Demi Moore, accetta di farsi iniettare una sostanza che le regala la giovinezza, e quindi un altro corpo (quello della lanciatissima Margaret Qualley) a settimane alterne. Violenza, nudi integrali, fiumi di sangue. «Ma era l’unico modo» spiega la diva, «per raccontare gli eccessi che alcune donne si infliggono per rispettare i canoni imposti dalla società».

© RIPRODUZIONE RISERVATA