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Criminologo e consulente della difesa nei casi di Marta Russo, via Poma, Cogne, Carmelo Lavorino è anche direttore del Centro studi di investigazione criminale e docente di scienze criminologiche alla facoltà di giurisprudenza dell’Università a Santa Maria Capua Vetere.
Dottore Lavorino, la vicenda di Avellino è assimilabile al caso di Erika e Omar del 2001 a Novi Ligure?
«Dalle informazioni diffuse, anche sulle intercettazioni telefoniche tra i due ragazzi ad Avellino, mi sembra proprio di sì. Ci troviamo di fronte a quei casi che la criminologia definisce di “follia a due”, nell’ambito della categoria della omicidiologia familiare».
Si tratta di casi molto diffusi?
«Per fortuna no, ma certamente sono casi di grande impatto per il contesto in cui si verificano, per la violenza dell’esecuzione, nel ribaltamento di valori che questi omicidi comporta, per la premeditazione che è alla base di un gesto criminale scatenato da impulsi emotivi non frenati».
Cosa scatena questa «follia a due»?
«I giovani non riconoscono più il genitore come tale, lo considerano solo una cosa, un ostacolo a qualche desiderio che viene impedito o vietato. Avvenne così a Novi Ligure, mi sembra sia stato così anche ad Avellino come dimostrerebbero le conversazioni intercettate tra i due che addirittura progettavano di compiere una strage sull’intera famiglia della ragazza».
Un gesto criminale di questo tipo nasce dalla frattura emotiva con il vincolo familiare?
«Proprio così, i soggetti si sentono così al di fuori di quel valore e di quel legame affettivo vincolante da progettarne la distruzione totale, attraverso la morte dei familiari. Il valore famiglia diventa solo fonte di oppressione e negazione di un desiderio che si è considerato indiscutibile. Chi arriva a commettere questi omicidi, vede solo l’aspetto repressivo di una proibizione, perdendo di vista qualsiasi freno razionale».
Chi uccide non ha coscienza di commettere un crimine?
«Proprio così, siamo sempre di fronte a casi di giovani che non hanno raggiunto una vera maturazione interiore, o non avvertono il valore profondo dell’affetto e della famiglia. Non si rendono realmente conto di quello che fanno, l’idea ossessiva resta solo quella del desiderio di eliminare un ostacolo. Il genitore-oggetto, che ti impedisce di appagare una volontà irrazionale, scatenando un’azione totalmente distruttiva».
Questo periodo particolare, con le restrizioni e le ripercussioni psicologiche generali, legato alla pandemia può aver avuto influenza sull’omicidio di Avellino?
«Questo periodo si è inserito in un momento storico in cui la rete di rapporti e relazioni sociali e affettivi era difficile e piena di contraddizioni. Non credo che le ripercussioni psicologiche delle restrizioni per la pandemia abbiano potuto influire. Quando Erika e Omar idearono il loro delitto, eravamo nel 2001 e certamente non si viveva eravamo in un contesto generale diverso».
Si tratta di casi limite?
«Per fortuna sì. Non abbiamo molti casi come questi. Situazioni crimino-dinamiche scatenate da una serie di divieti su uno stesso desiderio, con avvisaglie manifestate da singoli episodi precedenti al delitto».
Di che tipo?
«Minacce, litigi violenti.
Il Mattino