A dime a dozen

A dime a dozen
Quando nell'estate del ‘61 seppe del suicidio di Ernest Hemingway, Giuseppe Berto si lasciò crescere la barba e la tenne per un anno. Un’antica usanza...

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Quando nell'estate del ‘61 seppe del suicidio di Ernest Hemingway, Giuseppe Berto si lasciò crescere la barba e la tenne per un anno. Un’antica usanza ebraica, per portare il lutto. Stefano Marelli, cinquantacinque anni dopo, va oltre Berto, costruendo un intero romanzo intorno alla figura di Hem: “A dime a dozen” (Rubbettino), con un grande viaggio nel Sahara a fare da binario principale e intorno un mucchio di personaggi figli del canone dello scrittore americano. Usandone le radici, le intuizioni, l’avventura, la forza, e avendo quella immediatezza che lo rese popolare alle masse e inviso a scrittori come Moravia, che ne scrisse un ritratto impietoso sull’Espresso, che fece incazzare Berto e che Marelli in una pagina fa distruggere al suo Miller, il protagonista che porta il secondo nome di papà Ernest. È difficile trovare un romanzo italiano come questo, capace di mettere in pratica il comandamento di Fosco Maraini: “viaggiare è un allargare l’endocosmo nutrendolo di esocosmo”, e di non tradire Hemingway. 
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Il Mattino