In questo solco

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Thomas Bernhard era convinto che Gehen (Camminare), ora da Adelphi, fosse il suo pezzo migliore, un romanzetto del 1971, aveva una struttura spiralizzante e raccontava un suicidio: quello di Hollensteiner, chimico, che s’impicca nel suo istituto universitario perché non ha avuto i finanziamenti attesi dallo stato. Pagine densissime con un ritmo spedito che non perdono forza né stile mentre raccontano la follia di Karrer, che impazzisce in seguito al gesto del chimico. La grandezza di Bernhard – restituita benissimo dalla traduzione di Giovanna Agabio – è tutta nel gioco di paradossi e matrioske, in un continuo avvitamento verbale sui dettagli delle cose, sulla possibilità di vedere difetti dove non ci sono e di vedere bellezza dove ci sono storture. L’atto stesso di camminare diventa sia il tentativo di fuga che di imprigionamento. Un ossimoro in movimento. Bernhard, spregiudicato, secco, efficacissimo, riesce a far sentire il flusso dei pensieri dei suoi personaggi, le loro pulsazioni e i loro respiri: che entrano nel lettore e lo trascinando nel grigiore austriaco, quello che lui respirò e di cui si nutrì.
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Il Mattino