L'orfano sannita

L'orfano sannita
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Ogni libro di Giorgio Manganelli è una vertigine. “Discorso dell’ombra e dello stemma” (Adelphi) è una vertigine superiore. Fuori dal tempo – Manganelli è un genere a parte – e il suo Discorso è oltre le aspettative, un romanzo “altro” con costruzioni ingegneristiche alla Étienne-Louis Boullée, quando pensa il cenotafio di Newton. Manganelli piega la lingua italiana spingendo sull’azzardo e le coniugazioni, ha la melodia di Rossini mentre ricama con l’orchestra sul semplice declamato. E se Carlo Emilio Gadda aveva la sua spiegata al popolo con Gianni Brera – come diceva Umberto Eco, facendo arrabbiare il giornalista – Manganelli rimane orfano nelle sue forzature linguistiche. Un isolato. Sembra un libro arrivato dal futuro, e lo sarà sempre. Viene da un altro pianeta, Manganelli, un posto di grazia ed esattezza. Dove si sperimenta su ogni parola, si montano e rimontano discorsi sul tutto per combattere il nulla. E sempre col ghigno dell’ironia ad ogni rigo, in ogni a capo, cercando la beffa per insidiare l’ordinarietà.  
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Il Mattino