«Lotto per ricominciare a camminare dopo oltre 50 giorni in rianimazione per il Covid-19»

«Lotto per ricominciare a camminare dopo oltre 50 giorni in rianimazione per il Covid-19»
«Ho salvato la pelle, ma sto ancora combattendo», racconta Carmine Sanseverino, dirigente medico dell'ospedale Moscati diventato il simbolo della lotta al...

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«Ho salvato la pelle, ma sto ancora combattendo», racconta Carmine Sanseverino, dirigente medico dell'ospedale Moscati diventato il simbolo della lotta al coronavirus. Il 65enne risponde al telefono da Villa dei Pini, il centro di riabilitazione, sempre ad Avellino, dove è stato trasferito lo scorso venerdì dopo oltre 50 giorni di degenza, intubato, passati in rianimazione. Questa intervista è stata pubblicata oggi nelle pagine di primo piano del Mattino. 


Come procede?
«Sarà lunga: ci vorrà più di un mese per il recupero».
Lei è guarito, ma quali postumi della malattia deve affrontare?
«Non riesco a camminare e nemmeno a usare gli arti superiori, non posso mangiare autonomamente. Non ho forza nella presa: anche piccoli movimenti mi risultano impediti. Ho difficoltà, ad esempio, a scrivere un messaggio dal cellulare, se più lungo di due righe».
Ha perso 15 chili, però ha ripreso a mangiare.
«Qualche giorno fa ho tolto il sondino naso-gastrico: assumo alimenti semiliquidi, cremosi».
Qual è il suo stato d'animo?
«Sto battagliando, so che devo lottare per avere risultati».
Ho avuto un sostegno psicologico?
«Non ce n'è stata la possibilità né è stata valutata la necessità: sono più che altro concentrato sull'effetto fisico della lungodegenza».
Che cosa ricorda del ricovero in ospedale?
«Nulla, da quando mi hanno intubato. Solo di aver chiamato io l'anestesista per dirgli di procedere prima che me lo chiedesse, per avere qualche chance in più».
E del risveglio?
«Gli applausi al passaggio della mia barella: qualcuno mi ha detto che ero guarito e l'ultimo paziente ricoverato nell'ex Alpi del Moscati, da trasferire».
La prima sensazione?
«Pensavo fossero passati 4-5 giorni, ma poi ho visto la trachetomia che in genere si fa dopo 15 e sono rimasto perplesso. All'inizio, non riuscivo nemmeno a parlare, ho ripreso lentamente, e i 50 giorni in rianimazione mi hanno portato alla ipertrofia muscolare diffusa».
È dura.
«Sono fiducioso e mi sto impegnando molto. La logopedista e la terapista della riabilitazione motoria mi seguono per tre ore al giorno e, per altre 4 o 5, continuo gli esercizi da solo».
Da medico, aveva ipotizzato a così tante complicanze?
«Ho sospettato, per primo, di aver contratto il nuovo virus e chiesto di eseguire il tampone, risultato positivo nel giorno di Pasquetta».
Cosa ha pensato il 13 aprile?
«Che potevo rischiare grosso, perché avevo già visto tanti pazienti con sintomi lievi o appena percettibili e poi un rapido peggioramento: ho pensato ai miei figli, a mia moglie, mia sorella. A tutto quello che rischiavo di perdere».
Ha pianto?
«Sono stato disperato, ma senza versare una lacrima. Se non quelle di commozione».
Ha capito come si è contagiato?
«Probabilmente, non da un paziente ma nelle retrovie dell'assistenza. A contatto, cioè, con colleghi o collaboratori in ospedale, quando si allentano un po' le difese di protezione».
Perché ha scelto di lavorare in ospedale?
«Oltre 45 anni fa, per l'umanità di questa professione scoperta a contatto con il mio medico di famiglia e altri esempi incontrati da giovane. Poi, ho visto anche tanti comportamenti che non mi piacevano».
Com'è la prospettiva, da paziente?
«Ho vissuto la malattia in un modo drammatico: è stato brutto soprattutto perché non capivo di preciso cosa stesse accadendo, non avevo una prognosi attendibile».
E ora?
«Vivo una situazione particolare rispetto ad altri degenti, perché molti terapisti, tra i più esperti, sono stati miei allievi ai corsi di formazione su pronto soccorso e medicina d'urgenza. E, solo ora, sto apprendendo tante piccole cose che sono successe».
Quali?
«Ad esempio, che sono stato curato con il plasma donato da alcuni colleghi, forse quella è stata la chiave di volta che mi ha salvato. Vorrei ringraziare loro, l'équipe di Enrico Storti e tutta la città che ha pregato per me».
Vuole anche mandare un messaggio sui rischi del Covid-19?
«Occorre proteggersi, sempre e ovunque. L'infezione può arrivare anche ora nei modi più strani e insoliti, non bisogna abbassare la guardia».
Qual è, invece, il messaggio più bello che ha ricevuto?

«Di incoraggiamento da persone che non conoscevo o che avevo visitato in pronto soccorso e in reparto. Questo mi ha dato molta forza nei momenti più difficili, che non sono stati quando ero intubato, ma con il ritorno alla normalità».
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Il Mattino