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Leo Longanesi diceva che ci avrebbero salvato le vecchie zie, forse ieri, oggi ci salveranno i vecchi libri come “Papà non era comunista” (Guanda) di Marco Santagata. Ormai se si vuole leggere bene bisogna evitare gli altari delle librerie eretti a somiglianza e riflesso delle classifiche in una ciclica ripetizione da déjà-vu e cercare nell’usato, scavare nel passato. Santagata – assentatosi da poco – è stato uno scrittore che meritava di più e nonostante qualche premio non ha mai trovato un altare votivo in libreria, né lo spazio nelle pagine che avrebbe pur meritato. Questo suo romanzetto autobiografico è un capolavoro degno di Meneghello: sta in quella ristretta famiglia di inarrivabili e mai troppo amati scrittori che riescono a inchiodare il loro tempo passato e il contesto che li conteneva. Poche pagine bastano a Santagata per farci vedere il mondo emiliano perduto e la minoranza cattolica cristiana all’interno dell’universo comunista che imperava. Ci sono i contadini e i poveri e c’è l’affetto e l’ironia, le domande che generano racconti e le risposte che sembrano apologhi zen, tutto quello che dovrebbe essere la letteratura e che oggi è introvabile nelle nuove uscite.
Il Mattino