Specchio delle mie trame

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Il romanzone – inteso come voluminoso racconto – è la briscola alta dell’ultima mano editoriale. Guardo gli annunci delle pagine culturali e/o stati d’animo, e scopro che ne arriva uno nuovo: “Città in fiamme” di Garth Risk Hallberg. Poi lo leggerò, intanto rimane il pensiero che dice: qualcosa non va nel tira e molla del numero di pagine. Con facilità si passa dall’elogio della lunghezza (ritornerai), a quello della brevità – che continua a spaventare –, quanti pezzi avete letto sul romanzo tweet? Segue sondaggio con nostalgia. Il punto è che ci sono solo romanzi belli e romanzi brutti, non lunghi o corti. “Infinite Jest” (di cui ricorrono i venti anni) è tra i primi – anche se è più citato che letto, una sorta di Flaiano lungo –, grande romanzo che conviene non imitare se non si ha un Wallace dentro. L’ultimo italiano a cannare il romanzone è stato Colombati con “1960”; a riuscirci Ferrandino con “Spada”; l’unico classico è “Fratelli d’Italia” di Arbasino. Resta il problema: fascino del numero o brevità di Calvino.
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Il Mattino