Antonio de Curtis e Totò non si potevano soffrire. Il Principe non tollerava la comicità sulfurea del guitto geniale, l’altro covava un rancore sordo per il...
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A Liliana de Curtis, l’unica erede del comico sublime, è toccato il compito meraviglioso e arduo di custodire la memoria di un uomo così complicato e così fanciullo, di maneggiare un’icona planetaria con la delicatezza dell’amore filiale e l’incantamento dello spettatore nel buio della sala. Le vite di Antonio de Curtis e Totò s’intrecciano, nei suoi ricordi di ragazza, con la materia di cui sono fatti i sogni di un’adolescente amatissima; gli amori rocamboleschi di Antonio de Curtis e Totò, i dispiaceri, i successi e le delusioni si rincorrono con morbida naturalezza e si sovrappongono ai suoi nelle pagine del libro «Totò mio padre», scritto con Matilde Amorosi quindici anni fa e da oggi riproposto in una nuova veste da Rizzoli, con la postfazione inedita di Elena, la nipote che ora è la più accreditata testimonial della storia di famiglia. Della storia di un uomo e di un artista assai speciale. Gli aneddoti, le avventure raccontati da Liliana sono a volte famosi a volte sconosciuti, ma in ogni caso hanno il potere di riproporsi con il lucore prezioso della novità. Non ci si stanca di leggere dei primi passi di Totò nel mondo della rivista sulla scia del primattore Gustavo De Marco, o del fascino che esercitava sulle donne quel giovanotto azzimato con la passione per la nobiltà, o dell’innamoramento folle per la giovane Diana, strappata al collegio appena sedicenne, proprio come non ci stanchiamo di vedere e rivedere i suoi film, di ascoltare le sue battute, di ripetere come un mantra identitario i suoi modi di dire, a prescindere.
Mettendo ancora una volta a disposizione i suoi frammenti di vita, facendosi umile «controfigura» di un personaggio tanto potente e ingombrante nell’immaginario suo personale e delle generazioni che da cinquant’anni lo amano senza riserve, è come se Liliana avesse di nuovo aperto la porta di casa a quanti avevano desiderio di affacciarvisi, proprio come accadde quel 15 aprile del 1967, quando il cuore di Totò fece un’ultima, bizzarra piroetta e si fermò, malato di tormento e di nostalgia. Arrivarono da tutt’Italia, per salutarlo nella casa di Roma, i «reggistoni» supponenti e la gente comune che lo idolatrava al pari e più di un santo laico. Totò se n’era andato portandosi dietro il rimpianto di non essere stato abbastanza amato nell’infanzia, lui figlio di N.N., e di non essere stato apprezzato a sufficienza nella maturità d’artista sommo.
Nella vita si era concesso molto, belle donne, belle case, lusso, barche, grandi atti di generosità, ricercatezza di modi e di sentire, nel lavoro avrebbe voluto di più. Girare un film con Fellini, per esempio, o un film muto e recitato solo con gli occhi, o cimentarsi con il dramma, lui che era il campione insuperabile della commedia dell’arte. Eccentrico e d’animo sensibile, il principe de Curtis era capace di nominare l’adorato cane Dick visconte e il pappagallo di casa, Gennaro, barone, ritenendoli non a torto più nobili dei tanti «caporali» nei quali aveva la ventura di imbattersi quotidianamente. Ma un giorno l’attore Totò, all’apice del successo, si ritrovò a ritirare un premio alla carriera in una sala semivuota, disertata dai colleghi e dai critici. Quel giorno, racconta Liliana, si appoggiò desolato alle spalle dell’amico Steno, e pianse.
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Il Mattino