Hanno ciascuno il nome di un fiume i padiglioni del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Danubio, Tamigi, Senna, Tevere, Volturno che, vista la collocazione geografica, non poteva...
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A quanto pare, l’«Uccella» fu messo in piedi con il cemento dei Casalesi. Quello del consorzio «Cedic», la creatura di Antonio Bardellino alla quale chiunque trattasse in cemento doveva aderire. Paradosso che emerge dalle dichiarazioni di uno dei primi pentiti che si sono staccati dalle fila del clan. Il defunto Carmine Schiavone ricostruisce, già in un verbale del 1993, l’imposizione del calcestruzzo in quegli anni. «Mille lire a metro cubo i soci dovevano darli al clan. Il prezzo lo decidevamo noi per Caserta; altrove l’ultima parola spettava a Carmine Alfieri con un sistema pressoché uguale». Erano i tempi in cui ci si affiliava alla camorra a mezzo «pungitura». Trent’anni fa. E fu come se, inconsciamente, i camorristi avessero deciso di pensare al proprio futuro, edificando la casa in cui trascorrere gli anni a venire. La casa circondariale. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere «è stato costruito con il calcestruzzo del consorzio dei Casalesi». E chi cercava di metterci le mani moriva. Il pentito Schiavone insieme ad altri getta luce su un lungo periodo di ombre. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino