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Quattro ore di ordinaria follia dove chi avrebbe dovuto «comandare», come il capo della polizia penitenziaria, Gaetano Manganelli, ammette placidamente davanti al gip di non aver contato nulla mentre il reparto Nilo veniva stravolto da violenze oggi note a tutti, e chi guidava il reparto speciale che intervenne su ordine del provveditore Fullone, ovvero Pasquale Colucci, nella memoria depositata al gip, sostiene che «L'unico responsabile in quel momento doveva essere il capo della polizia penitenziaria». Nel mezzo, 120 picchiatori senza volto, decine di agenti fuori servizio o congedati, cinquanta poliziotti colpiti da misura cautelare e altri 25 sospesi dal servizio.
Gli interrogatori di garanzia e le udienze di Riesame si sono conclusi con dichiarazioni e silenzi che, a incrociarli, finiscono per aggiungere confusione al caos del 6 aprile del 2020. Di certo c'è che decine di poliziotti si sono resi protagonisti di pestaggi a sangue freddo per vendicare la rivolta del giorno prima al reparto Nilo e che, a picchiare i detenuti, non fu solo il personale del Nucleo pronto intervento, dotato di caschi e manganelli, ma che ci fu una strategia preventiva per mettere i poliziotti in condizioni di far male dal momento che qualcuno autorizzò la distribuzione di sfollagente agli agenti di Santa Maria Capua Vetere poco prima che avesse inizio la rappresaglia.
Una camionetta fuori al reparto e i manganelli che passano di mano in mano, poi ricompaiono nella sala di socialità, nei corridoi e sulle scale mentre colpiscono detenuti inermi. È nei video.
Poi aggiunge che il capo del Dap, Fullone, si era «sostituito al direttore del carcere» e che «Colucci era la mano esecutiva del provveditore», ma chiarisce che quando chiese al capo del Dap «è autorizzato l'uso dei manganelli?» Fullone rispose «solo se necessario». Ma non era necessario se lo stesso Manganelli ammette che le proteste erano belle che concluse da oltre 24 ore, che i detenuti, dopotutto, si erano limitati a occupare un paio di sezioni, e che, ancora, sempre il 5 aprile 2020, fece di tutto per non entrare con la forza nell'area del barricamento «perché dovevo controllare l'intero carcere, 800 detenuti, non solo il reparto Nilo, e in quel momento, col contagio alle porte, qualsiasi mossa avventata sarebbe stata controproducente». Per questo Manganelli trattò con i detenuti «perché molti di loro erano veramente spaventati dal virus - dice - mentre altri strumentalizzavano la situazione». Ed erano nel panico anche i poliziotti «venivano a piangere nel mio ufficio colleghi di cinquant'anni». E poi a Santa Maria, in quelle settimane «il Dap aveva trasferito i rivoltosi di Foggia e quelli di Melfi, era una polveriera», le parole di Manganelli al gip. Rimpallo di responsabilità, dunque, ai piani alti, ma anche in quelli bassi. Gli ispettori di Santa Maria Capua Vetere accusano i colleghi di Secondigliano. «Ci dicevano: Scansatevi, perché noi non rispondiamo ai vostri comandi».
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