«Nel 2015 ero in Ungheria, nel centro culturale della Grande sinagoga di Budapest, stavamo presentando il libro per ragazzi "L'eroe invisibile" sulla storia di...
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Franco Perlasca ha raccontato della vita del padre Giorgio agli studenti delle classi quarte e quinte del liceo Garofano di Capua, nell'ambito del «Caffè letterario», curato dalla docente Vittoria Simone coadiuvata dalla responsabile del dipartimento di Filosofia e storia Anna Migliore. Dopo i saluti del dirigente Giovanni Di Cicco, i ragazzi lo hanno bersagliato di domande, avendo letto il libro scritto dal giornalista Enrico Deaglio «La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca» edito da Feltrinelli. Presente anche la scrittrice Mariastella Eisenberg, figlia di un medico ebreo rumeno, costretto a riparare in Italia a causa delle persecuzioni naziste nel suo Paese. Ma nella mattinata, Perlasca ha avuto modo di godere dei tesori della città attraverso una passeggiata per il centro che gli ha svelato le tante bellezze architettoniche di Capua. A fare da ciceroni, gli studenti Michele Bonaccio, Ida Marino, Antonio Pucino, tutti della classe quarta A, indirizzo musicale, accompagnati dai docenti Antonio Balzanella e Stefania Russo.
L'INTERVISTA
«Che padre era? Severo. Ma giusto. Discreto. Anni dopo la sua morte, scartabellando tra vecchie carte, mi sono reso conto di quante cose si era privato, assieme a mia madre, per non far mancare nulla a me, in un certo periodo in cui non navigavamo nell'oro. E poi era una persona riservata. Non l'ho mai visto piangere».
Franco Perlasca ha gli occhi chiari, che riflettono un carattere avveduto. Il tono della voce pacato, quasi carezzevole. Un sorriso incoraggiante. «Sono nato nel '54, all'epoca i miei genitori erano già in là con gli anni e non ci speravano quasi più di avere un bambino. Il mio era un padre normale, educazione e cultura di un uomo nato nel 1910, non giocava con me da bambino. Ricordo però che, ero alle medie, di sabato pomeriggio era diventato un rito per noi andare al cinema nella sala Marconi, che ormai non esiste più».
È a Padova, in un clima familiare tranquillo, nell'Italia ferita dagli stravolgimenti della Seconda guerra mondiale, che cresce Franco Perlasca, il quale è all'oscuro di una verità che riguarda suo padre e che verrà a galla solo nel 1988. Può un uomo solo fare la differenza? Giorgio Perlasca, fascista convinto, che all'indomani della promulgazione delle leggi razziali del '38 e dell'alleanza con la Germania si allontana dal partito ma non rinnega le sue idee, questo padre severo, giusto, discreto, riservato c'insegna che sì, un uomo solo può fare la differenza. Nel '44 a Budapest si finse ambasciatore spagnolo in Ungheria per salvare la vita di cinquemila persone, famiglie ebree altrimenti destinate alla deportazione nei campi di concentramento nazisti. Rientrato fortunosamente in Italia, non rivelò a nessuno la sua storia per circa quarant'anni, nemmeno una parola ai suoi cari. Poi un gruppo di donne magiare, ragazze all'epoca delle persecuzioni, si mise sulle sue tracce svelando al mondo intero il coraggio, la determinazione, il carattere di una persona che ha sempre parlato del suo operato come di un gesto di giustizia piuttosto che di un atto di eroismo.
Franco Perlasca aveva 34 anni quando ne venne a conoscenza. Per caso.
«Ero andato a trovare i miei. Il citofono. Un uomo e una donna anziani salgono gli scalini a fatica, si fermano ogni tanto sopraffatti più dall'emozione che dallo sforzo. Rompono in un pianto appena vedono mio padre. La signora Lang lo investe con i suoi racconti».
Dentro di lei che cosa succede?
«Ero incredulo. Delle due l'una: o non stavo capendo un'acca di quello che la signora Lang diceva, oppure avevo vissuto fino ad allora la mia vita con un estraneo».
I due lasciano una tazzina, un cucchiaino, una medaglietta.
«Sì, quanto rimaneva dei ricordi di famiglia. Mio padre era restio ad accettarli, voleva che fossero tramandati a figli e nipoti. E loro: "Li tenga, senza di lei non ci sarebbero mai stati figli e nipoti"».
I Lang vanno via, si chiude la porta, quale è la reazione?
«Ho fatto un grande errore. Non ho accettato che non mi avesse raccontato nulla. E allora mi sono estraniato. Per anni».
Anche l'Italia sembra non voler capire.
«Mio padre va in l'Ungheria, poi negli Stati Uniti, quindi in Israele per ricevere i più alti riconoscimenti, tra i quali quello di Giusto tra le nazioni. In Italia, tutto viene ridotto a un trafiletto sui quotidiani. Solo i giornalisti Deaglio e Minoli intuiscono la portata della notizia. Deaglio si stabilisce a casa dei miei, si fa consegnare documenti e raccontare i dettagli. E io ascolto quello che si dicono stando in un'altra stanza, attraverso le pareti. Nel '91 il nostro Stato nomina mio padre Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana, gli viene annunciato tramite lettera ed è invitato a versare un tot di soldi per poter ricevere la pergamena. Alla fine gliela spediscono lo stesso. Nell'aprile del '92 gli viene conferita la Medaglia d'oro al merito civile, la comunicazione arriva a settembre. Mio padre è morto ad agosto di quell'anno».
Nel '96 succede qualcosa.
«Viene pubblicato il suo diario. Non riesco a sottrarmi a due presentazioni, una a Padova e l'altra a Teolo. Qui arriva un signore che chiede il microfono perché ha qualcosa da dire. È lo scrittore Giorgio Pressburger. È uno degli ebrei ungheresi salvati da Perlasca. Mi spiega la differenza tra eroe e Giusto: quest'ultimo non solo ha il merito di aver salvato degli ebrei, ma lo ha fatto senza clamori, nel silenzio. Ecco, il racconto di Pressburger, che dopo cinquant'anni aveva avuto il tempo, la voglia, la forza di rendere la sua testimonianza, mi ha fatto riconciliare con la memoria di mio padre». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino