Il fare dell'artista, le trasformazioni che nel tempo subisce l'opera e l'accumulo di elementi come estrema forma «ecologica» di riciclo. Sembrano essere...
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Ma tornando al concetto di «aggregato» - che Beshty usa per titolare la sua mostra - quello che l'artista evidenzia è proprio la sovrapposizione di tracce, segni e fasi diverse che l'opera attraversa prima di mostrarsi. Ne sono testimonianza due cubi in vetro lacerati da crepe, con gli angoli scheggiati, esito dei trasporti «violenti» subiti da un luogo all'altro. E le scatole di cartone su cui sono posizionati sono proprio quelle usate dagli spedizionieri, con tanto di etichette e timbri come se fossero i visti di un ipotetico passaporto. L'opera dunque si altera nel tempo e muta ogni volta che viene esposta, ed è testimone della sua stessa deperibilità, forse anche della caducità della bellezza. Un altro lavoro a parete, invece, è un inno all'arte del riciclo: vecchie opere o progetti e appunti vengono distrutti e macerati nell'acqua e ne viene fuori un composto pastoso che ricorda le zolle di terra, ma include pezzi di vetro e plastiche, tracce di un piccolo mondo scomparso a cui qui si offre una seconda possibilità di vita. Poi due grandi foto sono il trionfo della scomposizione del colore, ottenuta con movimenti forzati in fase di stampa: le cromie perdono così la loro compattezza (anche qui uno slittamento di senso e d'immagine) e sembrano esplodere in un tripudio da fuochi d'artificio. Restando nell'ambito della fotografia, un pezzo di storia rivive in due grandi immagini scattate all'interno dell'ambasciata irachena a Berlino Est abbandonata in fretta nei giorni della caduta del Muro e rimasta in balia di saccheggi e vandalismi. All'artista interessava proprio ritrarre uno spazio che diventa improvvisamente libero da qualunque sovranità, una sorta di terra di nessuno senza confini segnati. Il trasportare oltre le frontiere i rollini fotografici che contenevano questo lavoro, per Beshty è stato un gesto concettuale e politico allo stesso tempo. Un'altra opera su tela, come un sudario o un insolito reperto archeologico, reca in sé le tracce di un precedente lavoro di pittura: sono impronte di passaggi, memorie di passato, anche qui stratificazioni e accumulazioni.
Tra i lavori formalmente più belli, alcune sculture geometriche in rame che seguono un po' tutto il percorso della mostra, messe sul pavimento ma che potrebbero stare anche sospese a parete, occupare uno spazio proprio o assecondare la triangolarità di un angolo (l'artista lascia ampia scelta al loro posizionamento): opere lucide e specchianti nel loro riflesso ramato che accoglie la luce e il riflesso degli ambienti della galleria e delle persone, e in più... conservano le impronte delle mani di Beshty, le tracce delle dita che le hanno toccate o spostate come testimonianza del lavoro del loro autore e delle possibili trasformazioni nel tempo. E qui si torna al tema d'origine: quell'aggregazione di orme e di significati che rendono le opere animate da vita propria. Poi due sale speculari sono rispettivamente un omaggio al gallerista Thomas Dane e al suo socio François Chantala: per ciascuno c'è una foto che ne mette in primo piano le mani, e mentre a simboleggiare il primo c'è una scrivania scomposta - nel senso che il piano del tavolo è riprodotto in rame e appeso a parete (con tutto il suo tesoro di ditate) - per l'altro c'è un computer sezionato e rimontato a mo' di totem: è ancora funzionate, lancia piccoli suoni e cambi di luce dallo schermo: un computer zombie, un lacerto di macelleria dell'era digitale, una presenza iconica ma carica di ironia.
E ancora, due grandi sculture in ceramica assemblano ritrovamenti di oggetti (mani mozzate, figure di animali, parti di piante, teste): sono state infatti realizzate in Messico impiegando sottoprodotti di scarto, e si ispirano ai murales sudamericani anticolonialisti. Infine, un lungo piano raccoglie 7 volumi di grande formato, prologo di un lavoro più ampio di 52 libroni, che in maniera ossessiva, maniacale, documentano in circa 10.000 fotogrammi tutto quello che ha contribuito alla realizzazione di una mostra al Barbican Centre di Londra. Un'opera monumentale, esposta per la prima volta, che è archivio e allo stesso tempo dichiarazione d'intenti. Una narrazione del fare creativo che incarna l'apoteosi dell'«aggregato».
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Il Mattino