Biagi, con Zavoli gemelli diversi del giornalismo italiano

Biagi, con Zavoli gemelli diversi del giornalismo italiano
Dopodomani, 9 agosto, Enzo Biagi compirebbe cent'anni e il suo paese natale dell'Appennino bolognese, Pianaccio, gli dedicherà una giornata commemorativa. Ma per...

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Dopodomani, 9 agosto, Enzo Biagi compirebbe cent'anni e il suo paese natale dell'Appennino bolognese, Pianaccio, gli dedicherà una giornata commemorativa. Ma per singolare circostanza, la scena del cordoglio mediatico è stata già ampiamente occupata dall'altro maestro scomparso mercoledì, il suo «gemello rovesciato» nella coppia dei Dioscuri del giornalismo italiano novecentesco, il conterraneo Sergio Zavoli. Biagi, che morì il 6 novembre 2007, fu contrapposto a Zavoli da una sostanziale differenza di stile: fu più popolare, diretto, meno sussiegoso di Zavoli che risultava più cerebrale, raffinato ma alquanto pomposo. Amici e sodali di una vita, a scandire il loro rapporto fu anche la sotterranea, gorgogliante rivalità inconfessata, bisognosa di costante sorveglianza reciproca, di frequente instaurata nella professione che li vide entrambi al top. E solo la schiettezza di Biagi poteva coniare in proposito questa definizione perfetta, valida nel loro come in altri casi: «Tra giornalisti la colleganza è odio vigilante».


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Fra le infinite memorabili boutades di Enzo Biagi, forse la più bella e la più rivelatrice del suo modo di essere fu questa: «Dio ha dato la parola all'uomo, Berlusconi se l'è tenuta: se avesse un'ombra di tette, farebbe pure la presentatrice nelle sue tv». Ebbe l'ardire di cogliere con questa battuta l'essenza di colui che in quel momento era il presidente del Consiglio più potente della storia repubblicana. Lo fece come sempre a viso aperto, con lo stesso piglio deciso che lo aveva indotto a voltare le spalle a direzioni prestigiose come Epoca e il Tg1. Quello stesso coraggio lo avrebbe reso bersaglio, con Santoro e Luttazzi, del celebre «editto bulgaro» con cui da Sofia nel 2002 Berlusconi cancellò d'imperio «Il fatto» di Enzo Biagi, la trasmissione con il più alto indice d'ascolto nella storia della televisione di Stato. Perché l'essenza del giornalismo era per lui tenere la schiena dritta, cioè non scrivere mai o mai ideare servizi «per conto terzi».

Enzo Biagi ha avuto una carriera magnifica, ha intervistato capi di Stato, re, popolani, artisti, delinquenti, scienziati, ha fatto e scritto tutto ciò che un giornalista può desiderare. Ha inventato l'inconfondibile «stile Biagi» fatto di poche e semplici regole: «non usare mai il tuo lavoro contro chi è debole», «non metterlo mai al servizio di chi è forte», «scrivi di ciò che sai e vedi», «non inseguire lo scoop a tutti i costi». Ha assaporato più volte il gusto amaro della disfatta, della detronizzazione e dell'isolamento. La prima volta avvenne quando, dopo aver rilanciato il settimanale Epoca, ne fu allontanato con un diktat mondadoriano per un servizio contro il governo Tambroni. Rimosso dalla direzione, gli venne offerta una consulenza riparatoria rifiutata su consiglio di sua moglie Lucia, detentrice di una ruvida sincerità che le faceva definire a viso aperto l'amico Zavoli «un patacca» e, nel caso di Epoca, la portò a dire al marito: «nella casa dove sei stato il padrone non puoi tornare facendo la serva». Lui la ascoltò, e allora venne l'esperienza della direzione di La Stampa, poi nel 1961 quella del Tg1. «Voluta dal Psi», si disse, ma dopo un anno anche da lì Biagi sbatté la porta e se ne andò. Accostato di volta in volta alla Dc, ai comunisti o ai socialdemocratici, indicò per sé tutt'al più un'appartenenza al socialismo nenniano, o meglio a quello spirito di Giustizia e Libertà con cui da giovanissimo aveva vissuto la militanza partigiana.

Biagi veniva da una famiglia modesta: era maggiore dei due figli di un magazziniere di zuccherificio e di una casalinga. A partire dagli anni 60 visse in pieno il successo, trovandosi ad essere venerato dal pubblico e corteggiato da imprenditori e politici, ma tra l'uno e gli altri ha sempre scelto il primo. Per lui ci sarebbero state fortunatissime trasmissioni televisive, come «Il Rotocalco», primo settimanale della tv, quindi il lavoro al Corriere della Sera, lasciato per Repubblica quando esplose il caso P2. Ovunque andasse, sia che scrivesse articoli o intervistasse personaggi come Gheddafi o Buscetta o Sindona, fece brillare il suo talento di grande cronista sintonizzato con il suo tempo, di cui captava gli umori, scarpinandoci dentro. Lo faceva anche attraverso gli innumerevoli saggi, reportage, libri-interviste, perfino albi a fumetti, quasi sempre in cima alle classifiche e tradotti in molti Paesi. E ai tempi delle vacche grasse dell'editoria italiana, i libri di Biagi erano una vera manna per la Rizzoli, che ogni anno organizzava lanci editoriali con viaggi in vari Paesi del mondo, con un gruppo quasi sempre fisso di giornalisti amici.


La firma di Enzo Biagi è apparsa regolarmente anche su Il Mattino tra il 1993 e il 2003, con la rubrica «Lettera a un'amica napoletana» di suoi dialoghi-interviste a me affidati, su eventi di cronaca italiana, internazionale o locale, ideata dall'allora direttore Paolo Graldi. Lì Biagi fissava spesso la sua attenzione su Napoli, che amava fin dai tempi in cui sua moglie aveva insegnato a Pozzuoli. «Se mi avessero offerto di dirigere Il Mattino, sarei venuto con gioia», diceva. E a proposito della Lega da poco apparsa sulla scena: «Che coglionata l'idea di Bossi di smembrare l'Italia, non sa quanto tutti dobbiamo ai meridionali». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino