Il brigantaggio? Solo una questione criminale, non influenzata da problemi sociali, né da contesti politico-economici o da gattopardismi locali. Non è una tesi molto...
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese
oppure
1€ al mese per 3 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno
LEGGI ANCHE L'assedio di Gaeta, Fenestrelle e brigantaggio, il sito dei Carabinieri aggiorna i suoi giudizi. Poi li cancella.
LE FONTI
Mirate alla tesi finale le fonti utilizzate, consultato quasi solo l'Archivio di Stato di Torino, quando i tre libroni pubblicati anni fa dall'Archivio centrale dello Stato danno il quadro completo delle fonti archivistiche sul brigantaggio post-unitario, Vigna, che viene definito «storico professionista» (e chissà cosa direbbe Benedetto Croce che non volle mai insegnare all'università), si spinge a dire che il brigantaggio è parente stretto delle mafie. «Il mafioso è lo spurgo del mio naso» disse il capo brigante lucano Carmine Crocco ai professori Salvatore Ottolenghi e Romolo Ribolla. Ma un lavoro così riduttivo non può che trascurare gli approfondimenti di tanti studiosi che hanno scritto fior di volumi sulla storia delle mafie. Come Isaia Sales, che nel suo pregevole Storia dell'Italia mafiosa (Rubbettino, 2015) scrive: «Le mafie hanno avuto bisogno che si formasse lo Stato unitario per assumere un ruolo centrale che prima non erano riuscite a svolgere completamente sotto i Borbone». Non solo, ma Sales, la cui lettura più ampia consiglio a Vigna insieme con i testi di Umberto Santino, Enzo Ciconte, Antonio Nicaso, Salvatore Lupo, osserva che nella storia italiana lo Stato è riuscito a sconfiggere fenomeni violenti come il brigantaggio e il terrorismo e non le mafie. Chissà perché... Gramsci? Un filosofo, non uno storico. E anche qui chissà che direbbe Croce. Franco Molfese, bibbia per ogni studio sul brigantaggio, che non era docente universitario? Vigna definisce il lavoro di Molfese «significativo e autorevole». E meno male. Poi elenca studiosi che hanno approfondito del brigantaggio l'aspetto sociale di ribellione, o quelli che ne hanno evidenziato le caratteristiche politiche.
IL MAESTRO E L'ALLIEVO
Si capisce che Vigna deve molto al suo maestro Barbero, che considera il brigantaggio «ostaggio del movimento neoborbonico», consapevole che solo una polemica di questo tipo può sostenere lo studio che presenta. Nel flashback sul brigantaggio nel decennio francese (gli anni, in Piemonte, del brigante Mayno della Spinetta), Vigna descrive il brigante carnivoro, violento, criminale. E, ignorando i metodi repressivi francesi, seleziona alcune norme del periodo borbonico per giustificare la legge Pica. Qui il capolavoro, che ignora testi universitari, come quello del professore Pasquale Troncone (La legislazione penale dell'emergenza in Italia, Jovene 2001), in cui si evidenziano le violazioni dello Statuto albertino nella prima legge speciale italiana nata per reprimere il brigantaggio. Forse, Vigna ha avuto come unico obiettivo la demarcazione tra buoni e cattivi. operazione che negli studi storici è semplicistica. La cultura contadina del brigante? Carlo Levi è solo un romanziere, ma in alternativa si ignorano gli studi antropologici di Ernesto De Martino, o Manlio Rossi Doria e Rocco Scotellaro. Insomma, oltre 500 pagine prive di tesi e fonti nuove. «I numeri dei morti mi sembrano un po' troppi per trattarsi di puri e semplici banditi da strada» scrisse Andrea Camilleri, a commento delle cifre ufficiali sulle vittime della repressione del brigantaggio (La bolla di componenda, Sellerio, 1993). Ma il libro di Vigna è il brigantaggio visto da lontano. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino