Carlo Emilio Gadda e il pasticciaccio brutto della Grande guerra

Esce la nuova edizione del Giornale di guerra e di prigionia a cura di Paola Italia

Carlo Emilio Gadda e il pasticciaccio brutto della Grande guerra
Quando, su sua richiesta, arriva in zona di guerra siamo alla fine di agosto del 1915, nel pieno del conflitto mondiale il sottotenente Carlo Emilio Gadda è pieno di...

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Quando, su sua richiesta, arriva in zona di guerra siamo alla fine di agosto del 1915, nel pieno del conflitto mondiale il sottotenente Carlo Emilio Gadda è pieno di spirito patriottico. Ha 23 anni, è interventista e non vede l'ora di scendere in campo «per schiacciare in aeternum il militarismo tedesco», come proclamava la corrente nazionalista alla quale si sentiva vicino. Ci metterà pochissimo a disilludersi, meno di tre mesi, se a novembre l'entusiasmo iniziale si è dileguato e può scrivere che «il mio popolo, la mia patria che tanto amai, mi appaiono alla prova ben peggiori di quanto credevo». Gli alti comandi i «generaloni», così li chiama combinano disastri per improvvisazione, pressapochismo, cinismo, incompetenza il disastro per eccellenza, Caporetto, avverrà di lì a poco mentre la truppa si arrabatta come può, menefreghista ed esperta dell'arte di arrangiarsi, qualità, questa, che non può che mandare in bestia uno spirito sensibile come quello del giovanissimo ufficiale.

Di tutto questo si parla in occasione della nuova edizione del Giornale di guerra e di prigionia, che comprende alcuni testi inediti gaddiani e che Adelphi ha appena pubblicato, con l'attentissima cura di Paola Italia

All'epoca, Gadda non ha ancora deciso il suo avvenire: completare gli studi di ingegneria (avviati per compiacere la mamma) o perseguire gli interessi letterari. Come che sia, è un dato di fatto che appena arrivato a Edolo di val Camonica, sede del quinto reggimento degli alpini, il giovane, ardente ufficialetto si procurerà un quaderno su cui scrivere giorno per giorno il resoconto di quel che accade, soprattutto imprese guerresche che nella realtà non ci saranno, tranne qualche scaramuccia che frutterà comunque una medaglia di bronzo.

Largo spazio, dunque, all'introspezione, all'autoanalisi, soprattutto in presenza di una generale scontentezza, di un «intorpidimento dell'animo» che si scontra con gli «spirti guerrieri» a cui il giovanissimo ufficiale si è votato, sentendosi «gettato da una vita orribilmente tormentata a questi giorni di squallore spirituale» in cui si alternano «noia, atonia, irrequietudine, desiderio di partire e d'essere a posto, esasperazione». È pigro, svogliato, trova difficoltà a contrarre simpatie e amicizie, con amarezza arriva alla conclusione che «l'eccessiva sensibilità, la timidezza invincibile, inguaribile, la scarsa forza di volontà, sempre in tutto» sono i suoi dati distintivi.

Se almeno si andasse in prima linea! Macché. Scaramucce, tiri d'artiglieria, piccoli spostamenti lungo la linea del fronte, quasi mai, però, venendo a diretto contatto con il nemico. Inevitabile il pensiero rivolto alla mamma e agli altri parenti, al fratello Emilio, alla sorella Chiara, al passato. La catastrofe di Caporetto fa sentire subito i suoi effetti, e al reparto di Gadda arriva l'ordine di arrendersi e consegnarsi al nemico. È il 25 ottobre del 1917, nella rotta della vergogna c'è anche il piccolo dramma dello smarrimento di uno dei preziosi quaderni che costituiranno il Giornale.

Comincia una prigionia, in lager e fortezze, che durerà più di anno e che avrà come protagonista assoluta la Fame. Le razioni sono scarse e di ignobile sapore, i pacchi dei famigliari e della Croce Rossa arrivano col lanternino, qualche cosa si riesce a comprare, ma ciononostante la fame la fa da padrone e suggerisce immagini iperboliche (già in stile gaddiano?): «Con avidità di belva, con voluttà serpentesca, le mie labbra, il mio palato, il gozzo e lo stomaco raccolsero dalla scodella la pappa di rape e l'altra di fave disciolte, una specie di beverone da cavallo».

In quella che viene definita «la baracca dei poeti» Gadda incontra due fini letterati, Ugo Betti e Bonaventura Tecchi, anch'essi prigionieri naturalmente, che allevieranno la sua solitudine e, forse, contribuiranno alla decisione di laurearsi, sì, in Ingegneria ma senza tralasciare la Letteratura.

Il racconto di quegli interminabili 51 mesi di guerra e di prigionia, diventerà libro solo nel 1955, accompagnato dal consueto psicodramma gaddiano. Ne uscì un'altra edizione dieci anni dopo, e adesso questa che promette di essere definitiva, ed è certamente una testimonianza di ineguagliabile interesse. Ancor più oggi, quando la parola «guerra» sembra aver perduto l'alone malefico che per decenni l'ha accompagnata. 

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Il Mattino