Esce il 7 febbraio in libreria il secondo romanzo di Caterina Perali, classe ’75. Edito da Neo edizioni, “Le affacciate” racconta la storia di Nina,...
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Cosa l’ha spinta a incentrare un romanzo sugli sbagli commessi e sulla loro importanza?
«Per natura sono sempre stata interessata all’imperfezione, gli errori sono il mio forte, non dal punto di vista professionale, ma nella mia vita rappresentano un percorso importante: imparare a rialzarsi dopo uno sbaglio è un momento che ti segna e ti fa crescere; è capitato a ognuno di noi e in qualche modo ce la facciamo tutti».
Compare qualche nota biografica nel libro?
«La nota più biografica tra tutte è la città, il libro è ambientato a Milano, dove ho vissuto per vent’anni e nel palazzo in cui vive Nina. È anche lo stesso che descrivo nel primo romanzo, “Crepa”, in cui vive il protagonista, che altri non è che l’ex fidanzato di Nina, la protagonista de “Le affacciate”, che rincontriamo dopo dieci anni».
Come sono nati i personaggi de “La smilza”, “La leopardata” e “La forzuta”?
«Svetlana, la forzuta, è una persona esistente, che ho ovviamente romanzato. L’idea di questo libro nasce proprio da lei. L’ho conosciuta a una cena e ha cominciato a raccontarmi le sue storie: quando ha conosciuto Obama e il suo rapporto con la Serbia. Le ho chiesto se potessi chiamarla periodicamente per intervistarla, lei mi ha risposto di sì. In realtà io ero interessata ai racconti di guerra, volevo conoscere la sua versione. Ho scoperto che della guerra che aveva vissuto sapeva ben poco, ma aveva tantissime altre storie incredibili. L’ho chiamata per mesi, mentre Teresita, la leopardata, è la cartomante che compare già nel primo romanzo ed Adele, la smilza, è il personaggio che racchiude la figura di un amore eterno, perché mitizzato e mai realizzato».
La storia della protagonista secondo lei rispecchia la situazione attuale in Italia?
«I precari sono un grande classico, i contratti a tempo determinato ancora di più, soprattutto oggi. Più o meno credo che ci troviamo tutti nella stessa situazione, che siamo sotto contratto o meno, siamo tutti freelance».
Il suo modo di raccontare la vicenda di Nina intreccia costantemente la sua vita passata e quella presente: quanto è importante il passato in una storia?
«Mi piaceva che il personaggio di Nina vivesse un eterno rimando alla malinconia, a quello che c’è stato e che non c’è più, come se il passato fosse sempre meglio del presente, perché rimane idealizzato, mentre il presente è spesso scandagliato dall’incapacità di esserne consapevoli. Il passato potrebbe essere il presente se ci si concentrasse su quello che ci succede nel momento».
I messaggi rapidi che si scambiano Nina e la sua amica all’inizio dei capitoli rappresentano per lei il modo di comunicare che ormai abbiamo adottato?
«Sì. Secondo me sono ancora più attuali dell’essere precari. Ci stiamo abituando a non essere mai qui e ora. Nonostante Nina si trovi a cena con tre donne settantenni con delle storie incredibili, lei comunque non molla la comunicazione con un’amica che in quel momento sta facendo tutt’altro, mentre Nina finge di stare facendo tutt’altro. Il nostro collegamento col mondo è continuo e non è un rapporto, ma una costruzione di un rapporto». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino