Dieci anni dopo la sua apparizione, la migliore chiave di accesso all’arcipelago Gomorra - al di là dell’effetto della fiction - resta ancora il suo biglietto...
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Un effetto che dura, appunto, perché scrivere, testimoniare è una lotta contro il tempo, una forma di conservazione del pathos. E se all’uscita una sorta di censura etica – non imposta da nessuno ma da molti avvertita, e per ciò stesso più radicata – impediva di affrontare serenamente (o quantomeno obiettivamente) il tema del valore letterario dell’opera di esordio di uno scrittore poco meno che trentenne e già gettato in pasto al tritacarne della società dello spettacolo (che non è solo lo spettacolo, ma tutta la vita pubblica occidentale: i media, le minacce, le scorte, le polemiche oziose e i dibattiti politici); se, dicevo, sull’onda corta del “caso” era difficile, e forse ingiusto, separare i fattori di un’equazione complessa senza correre il rischio di essere tanto precisi quanto oscuri, oggi la distanza consente di accostarsi alle pagine di Saviano con meno cautele e pregiudizi di quanti se ne usino per un oggetto incandescente o un luogo comune; e consente, sempre la distanza, di considerare l’equazione nel suo complesso, senza bisogno di fare tare o distinguo. Perché, a rileggerlo, Gomorra è esattamente questo, come la tela di Warhol: un’uguaglianza tra due concetti, finzione (l’effetto cromatico, la deformazionie artistica) e verità (il coltello, l’oggetto), in relazione tra loro e in grado di produrre uno squarcio sulla realtà (o, meglio, sul reale) più vero della sola verità.
Ma come lo fa? Lo fa come sempre fa un romanzo importante, che non è mai puro intrattenimento o puro impegno né tantomeno pura narrazione; un romanzo che non ha bisogno di etichette a sostegno (romanzo-reportage, docu-fiction, non fiction-novel) per sorreggere la propria credibilità letteraria. Dopotutto, non è proprio il romanzo il terreno elettivo dell’ibridazione di generi? Non nasce così la nostra idea di romanzo? Dal Satyricon al Don Chisciotte, dal Tristram Shandy al Tempo perduto il romanzo è l’informe che prende forma violando regole e prescrizioni. Superate le unità aristoteliche resta solo la coerenza di un’opera a se stessa. Dopotutto, l’idea di romanzo come sola narrazione di finzione non è che un piccola parentesi nella storia della letteratura universale; ne rappresenta appena l’altrieri, e nemmeno tutto. Perché se valgono per l’attualità i sempre citati Vollmann o Langewiesche, che dire, nel passato prossimo, del noto esempio di Capote (A sangue freddo) o del meno noto di Kluge (Organizzazione di una disfatta)? Preferite non chiamarli semplicemente romanzi? Bene. Ma nei romanzi si raccontano fatti, si svolgono dinamiche, si dispiega una lingua sempre in lotta con l’immagine. Cambia molto che questi fatti corrispondano alla cronaca o alla storia? Che quelle dinamiche siano o meno prossime a chi legge? Settimane fa sull’Unità, parlando di Gomorra, Andrea Di Consoli ha messo in discussione la primazia del romanzo come forma superiore di narrazione. Ha ragione. Cionondimeno, il libro Roberto Saviano resta un romanzo importante. E non solo per il suo fragoroso effetto di denuncia. Anche per quello. Ma, di più, perché è un romanzo che cambia la coscienza di chi lo legge, sia il lettore nato a Scampia o a Oslo.
Questo incide sul dramma della realtà che in Gomorra viene descritta? Non lo so, non credo.
Il Mattino