La storia dai diari, in libreria “Lettere a Fort Knox” di Giulio de Martino

«In un diario non troviamo la mera narrazione delle vicissitudini del protagonista, come accade in altri scritti di tipo biografico»

La storia dai diari, in libreria “Lettere a Fort Knox” di Giulio de Martino
C’è un particolare filone di ricerca storiografica, la “biographical history”, che privilegia “fonti pure ma minori”. Lo scrive Giulio de...

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C’è un particolare filone di ricerca storiografica, la “biographical history”, che privilegia “fonti pure ma minori”. Lo scrive Giulio de Martino, storico e filosofo, docente universitario e scrittore, autore di decine di volumi. Lo fa introducendo il suo ultimo lavoro, “Lettere a Fort Knox. Ettore de Martino 1941-1945” (L’Armadillo editore), incentrato su diari, lettere e documenti dello zio Ettore. Nato a Napoli nel 1916, commerciante di tessuti di un certo agio, da convinto fascista si convertì al pensiero liberale dopo l’esperienza nella Seconda guerra mondiale (fu sottotenente di complemento in Libia dopo il 1940) e la prigionia negli Stati Uniti.

La biographical history si distingue per una serie di aspetti che investono la metodologia di ricerca, sostiene de Martino: «In un diario non troviamo la mera narrazione delle vicissitudini del protagonista, come accade in altri scritti di tipo biografico». 

Il materiale non è costituito, se non in minima parte, dalla vita privata del protagonista, ma «si trova soprattutto la descrizione dell’accadimento collettivo a cui il diarista ha partecipato e la sua percezione del contesto». Poi è evidente la differenza tra chi compila appunti per sé e, per esempio, un inviato di guerra, che racconta secondo l’interesse del lettore o dell’editore. Ancora, secondo l’autore «i diari e le lettere di interesse storiografico non vanno considerati mere testimonianze, il diarista non è un fortuito spettatore degli eventi».

Insomma, il combinato disposto tra empatia massima e assenza di velleità storiografiche offrono un punto di vista “puro”, appunto. Diverso dalla memorialistica in cui «l’opera scritta a tavolino da un protagonista che si è fatto storico di se stesso racconta in forma autoriferita gli eventi cui ha preso parte con ambizioni celebrative, chiarificatrici, giustificative». La conclusione è che l’improvvisato compilatore di taccuini, dice de Martino, è protetto da un “veil of ignorance”, non sapendo ciò che gli accadrà in futuro: «Scrive in tempo reale, avendo come orizzonte il suo particolare angolo visuale. Annota i fatti secondo il loro svolgimento casuale, senza alcuna pretesa di interpretazione».

È sulla scorta di questo particolare tipo di testimonianza che si muove lo storiografo. E qui lo fa suddividendo l’analisi dei momenti salienti della vita del protagonista tra la fase bellica e quella della residenza forzata negli States. L’esperienza di guerra è annotata in modo scrupoloso, dal racconto del trasferimento a quello delle missioni libiche. Nell'animo di Ettore si scontrano, scrive l’autore, due differenti concezioni della guerra: «Un certo volontarismo fascista, il desiderio di muoversi anche a latere dei regolamenti, avendo come scopo il raggiungimento dell’obbiettivo “whatever it works!” e, dall’altra, lo scrupolo formale, basato su procedure e disposizioni da osservare rigorosamente, senza discussioni». 

Il resoconto dettagliato procede fino al maggio 1943. De Martino viene catturato in Tunisia e da quel momento fino ad agosto, quando è tradotto nel “P.O.W. Camp” di Weingarten, Missouri, ci sono poche notizie. Qui inizia un’altra storia e una narrazione diversa in cui da attore, seppur sottoposto, delle vicende, il personaggio si trasforma in recettore passivo: i prigionieri erano impegnati in lavori agricoli e nel controllo delle piene del fiume Mississippi. Però, a differenza dei periodi di magra in Africa, in America le cose vanno bene, soprattutto quando viene trasferito al campo di Fort Knox: «I prigionieri erano ben nutriti, con un guardaroba militare adatto alle diverse stagioni dell’anno e ottenevano per il lavoro svolto dei buoni con cui potevano accedere ai negozi e sale di intrattenimento». Così Ettore può progressivamente abbandonare la posizione di refrattarietà al nemico e usufruire delle concessioni che, seppur in regime di prigionia, vengono elargite ai reclusi: sport, visite nelle città, spettacoli teatrali e persino il cinema da cui si usciva “mogi mogi, non avendo capito nulla”. Da quel momento si farà strada, in lui, una diversa consapevolezza.

Nella sezione che dà il titolo all’opera si leggono le lettere che i familiari spedivano al parente imprigionato oltre oceano, fino all’ultimo telegramma, del 16 novembre: «Noi bene aspettando tuo ritorno desideriamo altre notizie». La risposta di Ettore ha la stessa data: «Salute ottima, partenza prevista primo dicembre durata viaggio quindici giorni». Il 17 dicembre del 1945 sarebbe sbarcato nel porto di Napoli. Ricca l'appendice iconografica, composta da documenti e immagini custoditi nel “Fondo Ettore de Martino”.

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Il Mattino