Quando a Pelé chiesero quale team avrebbe voluto affrontare per la sua gara di addio alla nazionale, non ebbe alcuna esitazione nel fare il nome della Jugoslavia. La...
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La Jugoslavia era la compagine che più si avvicinava ai brasiliani per abilità di palleggio, organizzazione collettiva e tecnica individuale. E non solo, Pelè volle al Maracanà la Jugoslavia in quanto apprezzava tantissimo quel fuoriclasse - tutta tecnica, eleganza e velocità - che era all'epoca l'ala sinistra (e bandiera) della Stella Rossa di Belgrado Dragan Dzajic. »Sono quasi dispiaciuto che non sia un brasiliano - dirà Pelé - perché non ho mai visto un calciatore così naturale...».
Sono interessanti le pagine del libro di Carelli in quanto narrano come i clubs e la nazionale del Paese balcano hanno rappresentato nel vecchio Continente l’icona del «futbol bailando» nonostante la loro storia non racconti di grandi trofei e successi internazionali. Per l’autore «c'è un elemento che, forse più di altri, ha impedito alla Jugoslavia di accreditarsi presso le nazioni calcistiche più forti e vincenti. Va cercato nell'anima più profonda di quel popolo (di quei popoli) e rappresenta l'altra faccia della fierezza e dell'orgoglio tanto proverbiali: l'insicurezza, la fragilità emotiva».
Saranno, inoltre, proprio quelle divergenze, quegli attriti tra le varie etnie che, una volta morto il maresciallo Tito, esploderanno nella disgregazione delle sei repubbliche federali e nel più sanguinoso conflitto europeo dalla seconda guerra mondiale. Nel calcio le rivalità accese fra le società più accreditate (Stella Rossa, Partizan Belgrado e Dinamo di Zagabria) si intrecceranno inevitabilmente con la crisi politica e l'esaltazione dei nazionalismi. La storia del calcio dell'ex Jugoslavia è contrassegnata da momenti straordinari e talenti indiscussi che hanno fatto la differenza anche quando sono andati a giocare all'estero, ma oggi non si può non riconoscere che «il Brasile d'Europa» è un realtà persa, frantumata dai risentimenti. «E rigettare ogni forma di nostalgia e di improbabile riedizione - afferma Carelli - è forse il modo migliore per custodirne la memoria». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino