C’è anche una delle più strepitose (auto)definizioni possibili di Nick Cave nelle 176 pagine di «The sick bag song» (Rizzoli): «Sono un...
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On the road, il fantasma del figlio Arthur (morto l’estate scorsa cadendo da una scogliera a Brighton) mai evocato, Cave scrive un lungo blues, un flusso di coscienza un po’ beat e un po’ dylaniano, si muove a singhiozzi, racconta le città, i bus, i concerti, gli incontri, gli amici musicisti, poi scarta, raccoglie una draghessa morente, o, per restare nella mitologia profana, rievoca i suoi incontri con Bob Dylan, Brian Ferry, Johnny Cash: «Ho visto un uomo malato prendere la sua chitarra e stare bene. Purtroppo ho visto anche il contrario». Sulla strada, ma spesso anche chiuso in una stanza d’albergo, con la moglie che non risponde mai al telefono e «love is a ring, the telephone» suggerirebbe Patti Smith, anch’essa chiamata in causa, oltre che punto di riferimento stilistico di una scrittura per accumulo, allusiva, religiosamente punk se le due parole potessero mai andare insieme. La ricerca dell’ispirazione mostra canzoni nascere ed essere promosse o bocciate, porta a ringraziare nove muse e nove angeli protettori. Pagina dopo pagina, i tributi a Leonard Cohen, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Roy Orbison, Hank Williams, i poeti John Berryman e Sharon Olds si alternano alla visione-ossessione di una ragazza pon pon che sembra voler saltare giù da un ponte portandosi dietro il King Ink, il Re Inchiostro che ora scrive sui sacchetti del vomito. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino